Il fatto più significativo dell’odierna celebrazione del 160° anniversario dell’unità d’Italia è stato la nomina di 28 giovanissimi alfieri della Repubblica, eroi della solidarietà nell’anno del covid. Li ha premiati il presidente Sergio Mattarella. Non si è festeggiato, come invece avvenne per il 150°, quando al Quirinale c’era Giorgio Napolitano. L’emergenza sanitaria punteggiata da quotidiani bollettini di morte ai quali si aggiungono le difficoltà di almeno 100mila imprese e le famiglie in affanno suggerivano il basso profilo. Ma la congiuntura negativa nulla toglie all’importanza di un traguardo fondamentale, raggiunto al termine del difficile e sanguinoso processo di unificazione snodatosi nel XIX secolo.
Il ritardo storico nella costituzione dello stato nazionale ha pesato nello sviluppo politico, sociale ed economico della nazione italiana, nonostante le esperienze riformatrici dei vari stati regionali. Fino all’unificazione, l’Italia rimase politicamente insignificante e terreno di conquista delle potenze straniere. Grazie allo stato unitario e nonostante la devastante parentesi della seconda guerra mondiale, il nostro Paese è riuscito a diventare la settima potenza industriale e a collocarsi nel consesso degli Stati più avanzati. Tuttavia resta attuale la frase di Massimo D’Azeglio: ‘Fatta l’Italia bisogna fare gli italiani’. Un processo tuttora in corsa e lungi dall’essere completato. Un impulso all’integrazione tra ‘genti italiche’ è stato impresso dalla pandemia, una sorta di livella che ha richiamato alla realtà nazioni e regioni che si illudevano di rimanere indenni. L’indistinta vulnerabilità al contagio e l’esposizione al medesimo rischio hanno risvegliato un timido spirito di solidarietà nazionale e sovranazionale. Ricordate l’atteggiamento compassionevole verso di noi che lo scorso febbraio ebbero Germania, Francia e gli Stati Uniti di Donald Trump? I muri e i confini fermano gli uomini, non i virus. Qualche tempo dopo il caso del paziente uno a Codogno, ci trovammo nella stessa barca con il resto d’Europa e l’America.
Usciti dall’emergenza, ci ritroveremo divisi e conflittuali come e più di prima? E’ probabile. Se guerre, persecuzioni di ogni genere ed efferatezze inenarrabili non sono servite da monito, figuriamoci se un’emergenza sanitaria, seppure planetaria, potrà cambiare la natura dell’uomo e il corso della storia. Nell’ultimo anno le tensioni tra governo centrale e poteri regionali si sono moltiplicate e acuite. Si è riacceso il dibattito sull’articolo V della Costituzione e sulle deleghe chieste dalle Regioni del nord che reclamano più autonomia. A queste spinte centrifughe si contrappone il riaccentramento dei poteri decisionali, in materia sanitaria e non solo. La demonizzazione del sovranismo soffoca una voce critica, ma necessaria a bilanciare la riaffermazione della centralità romana. E tutto ciò non predispone a liturgie su anniversari dello stato unitario.
In tale contesto è inevitabile che rispuntino la questione meridionale, di salveminiana memoria, e quella settentrionale che ha trovato più recente, ma non meno sentita, rappresentazione politica.
Sullo sfondo, non comprimarie ma protagoniste che condizionano tutte le fasi storiche della vita nazionale, restano, purulente, le piaghe dell’illegalità e della criminalità organizzata. Il premier Mario Draghi è un’anestetico che predispone all’attesa di un futuro che non sarà necessariamente migliore.
Resta attuale il detto di Massimo D’Azeglio, ma con una variante: fare una classe dirigente degna del nome. L’anniversario deve servire non solo per ricordare chi ha sacrificato la vita per l’ideale unitario. Deve essere soprattutto un’occasione per riflettere su quale stadio del cammino adesso si trova l’Italia.