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8 marzo. Nuzzo: ‘Donne avvocato, storia di esclusione’

8 Marzo 2022

In occasione della Giornata internazionale della donna, pubblichiamo un estratto dal libro di Francesco Nuzzo ‘Avvocati di Cremona e Crema – Spigolature storiche dal Medioevo a oggi’.

‘La storia delle donne nell’avvocatura si rivela come una somma di chiusure, che comincia dall’antica Roma e giunge ai tempi moderni, secondo una linea ideale di esperienze, qui congiunte in pochi esempi per arbitraria e, forse, utile opzione descrittiva. Nel mondo romano il rapporto tra mulieres e diritto è un rapporto di silenzio: la società le vuole ascoltatrici e non interlocutrici, in quanto tacere non solo costituisce una virtù, ma anche un dovere per le donne. Questo tabù del mutismo femminile viene tradotto in esplicite prescrizioni da re Numa, che impone alle donne un grande riserbo, toglie loro ogni possibilità di intromettersi negli affari pubblici, insegna a
mantenersi sobrie, le abitua a stare zitte, a non prendere la parola in assenza del marito, neppure su cose necessarie. Un giorno, quando una mulier contravviene all’accettata consuetudine e perora la propria causa nel foro, il Senato manda a consultare addirittura un oracolo, per sapere quali siano i presagi per la città a partire da quell’avvenimento.

Con il passar del tempo, diverse barriere sociali crollano, ma il catalogo delle incapacità muliebri, contenuto nel Digesto, dimostra la persistenza del risalente ostracismo: la donna non può svolgere officia civilia vel publica e, dunque, né essere giudice o esercitare alcun’altra magistratura, né postulare o intervenire pro alio, né essere avvocato. Già, tali compiti presuppongono l’utilizzazione della “parola maschile: quella politica, quella pubblica, quella
insomma riservata agli uomini” e il fatto appare sconveniente. La tradizione, soprattutto letteraria, attesta nondimeno la presenza ‘attiva’ di donne sulla scena processuale, comportamento ritenuto per nulla conforme alla condicio naturae e alla verecundia stolae, perché qualità apprezzata è in iudiciis tacere. Infatti, Mesia Sentinate, Ortensia e Carfania, che fanno sentire la loro voce nel foro e nel tribunale, cioè in contesti pubblici riservati alla dominanza maschile, non trovano consensi .La terza di esse, moglie del senatore Licinio Bocca, propugna cause civili anche di terzi non quod advocatis deficiebatur, ma per la mancanza di pudor e di verecundiaValerio Massimo la definisce di improbi mores, mentre il giurista Ulpiano la ritiene improbissima (sfrontatissima), poiché davanti al magistrato difende senza temperanza (inverecunde) e così lo molesta. Appunto in ragione della sua condotta, l’editto
pretorio proibisce alle mulieres, per non violare la pudicizia del loro sesso, di immischiarsi nelle cause altrui e di svolgere mansioni maschili. Al pretore, peraltro, interessa anche mantenere l’ordine e tutelare la dignità della propria funzione. Ferme le riserve circa la veridicità storica dell’accadimento, Carfania rappresenta una scusa, una sorta di capro espiatorio per introdurre il suddetto divieto: il patrocinio giudiziale è un officium virile, che lei non deve praticare. Tale inibizione esclude la presenza in iure al fine di postulare pro aliis, ma non pure la tutela di un affare di personale e diretta spettanza, sicché la donna può pro se verba facere .

Sulla base di argomentazioni non dissimili, tanti e tanti secoli dopo, Lidia Poët e Teresa Labriola, persone di elevata cultura giuridica, nella vigenza della legge n. 1938 del 1874,vedono annullata l’iscrizione rispettivamente all’Ordine degli avvocati di Torino (1883) e all’Ordine degli avvocati di Roma (1912). Il quadro normativo, fissato dall’articolo 24 dello Statuto albertino, prevede che ‘tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalla legge’. La clausola eccettuativa, con ampiezza di previsioni, è applicata alle donne, cui si riconosce il diritto di cittadinanza con forti limitazioni, poiché sono private dei diritti politici e ammesse solo parzialmente al godimento dei diritti civili: non possono esercitare la tutela, far parte di un consiglio di famiglia, svolgere le funzioni di curatore e di arbitro, alienare beni e comparire in giudizio. Inoltre, l’istituto dell’autorizzazione maritale impedisce che intraprendano azioni commerciali e gestiscano patrimoni senza il consenso del coniuge. Nessuna meraviglia, quindi, se la legge forense non contenga riferimenti sull’accesso femminile alla professione.  Per esempio, Iuvenalis nelle Saturae dice che le donne, contro le quali indirizza i suoi strali satirici, promuovono le liti, si fanno accusatrici in prima persona, formano atti giudiziari, assumono pose da grandi giureconsulti.

Molto più tardi le donne italiane non sono ancora ammesse all’università. Netta la differenza rispetto a quanto si verifica, per esempio, nell’ordinamento statunitense, o meglio in alcuni Stati
americani, dove esercitano l’attività di avvocato, come avviene anche in Danimarca e in Olanda . Le carenze di disciplina scuotono l’opinione pubblica quando Lidia Poët, appartenente a distinta famiglia valdese di Pinerolo, nel 1883 viene iscritta all’albo dell’Ordine degli avvocati di Torino a maggioranza dei consiglieri, con il dissenso e le dimissioni di Desiderato Chiaves, già ministro dell’Interno, e di Federico Spantigati, deputato della Sinistra, che si rivolgono al procuratore generale del Re perché investa della questione la Corte d’appello, ai sensi dell’articolo 11 della legge professionale. Iscrizione annullata, e conferma della sentenza in Cassazione, con rigetto del ricorso dell’interessata.

In breve sintesi: la soluzione negativa si fonda su un falso assunto iniziale, vale a dire la natura di ‘pubblico offizio’ dell’avvocatura, tesi sostenuta dal pubblico ministero, ma sfornita di fondamento normativo e bocciata addirittura dalla Commissione parlamentare, perché contenente ‘i pericoli di una definizione di senso ambiguo’ . Secondo i giudici, la ridotta capacità politica della donna si riflette sui diritti civili, ‘considerati di ragion pubblica perché dipendenti dal sistema generale delle cose e delle azioni, in quanto viene determinato dall’interesse di tutto il corpo politico; per conseguenza non è ancora ammessa la libera assoluta concorrenza della donna in ogni genere di officio sociale, anzi è esclusa dalla diretta partecipazione alla pubblica attività delle cariche, funzioni ed offici pubblici’ . La conclusione del sillogismo sconta il difetto sostanziale della premessa maggiore, e piega il dettato normativo verso esiti non voluti dal legislatore, che assimila l’avvocato a un libero professionista.

La motivazione delle pronunzie, comunque, svela una concezione patriarcale e gerarchica dei rapporti sociali, attardandosi in precetti didascalici, che fanno leva sulla cosiddetta imbecillitas sexus e incapacità muliebre a esercitare l’avvocatura. Indicative le seguenti osservazioni per negare alla donna di far parte della ‘milizia togata’: ‘oltre alle leggi ed alla osservanza ed ai costumi, ragioni d’educazione, di studii, d’inversatilità ordinaria negli affari, di non integra responsabilità giuridica e morale, la riservatezza del sesso, la sua indole, la destinazione, la fisica cagionevolezza di lei, la diuturna indivisibilità della sua persona dall’eventuale portato delle sue viscere, ed in generale parlando, la deficienza in essa di adeguate forze intellettuali e morali,
fermezza, costanza, serietà – considerazioni tanto più da guardarsi in oggi, che per la voluta pubblicità dei giudizii, potrebbe nascere facile occasione che la serietà, il decoro, la dignità delle giudiziarie tornate, venisse posta a repentaglio, a sfregio eziandio delle curiali divise ed a ludibrio del sesso minore…’ Idee lontanissime dall’attuale cultura dei Paesi più civili, danno l’esatta misura di come il diritto possa diventare ruvida espressione di potere, e discostarsi dalla retta giustizia, che ‘è il primo requisito delle istituzioni sociali, così come la verità lo è per i sistemi di pensiero’.

Pure Teresa Labriola, protagonista delle battaglie per il suffragio femminile, subisce impedimenti professionali a causa della sua condizione di donna. Laureata in giurisprudenza nel 1894 con la tesi sul tema Dell’onore nei rapporti giuridici, consegue la libera docenza in filosofia del diritto presso l’Università di Roma (1901). Il suo corso, molto seguito e apprezzato, inizia sotto cattiva stella, perché la prolusione iniziale, ascoltata anche da curiosi e giornalisti, è turbata dalla gazzarra degli studenti. Nel 1910 tenta il concorso a cattedre presso l’ateneo di Sassari con
esito negativo, e forse delusa si iscrive all’albo degli avvocati di Roma (1912), i cui consiglieri sottolineano che l’interessata già svolge la pubblica funzione di docente, per cui opera l’articolo 9 della legge professionale, che prevede l’ammissione di diritto. Manco a dirlo, il procuratore generale impugna il provvedimento davanti alla Corte d’appello, e la difesa presenta un controricorso che, mantenendosi nel “severo territorio del diritto”, ribadisce il carattere civile e patrimoniale della professione di avvocato. Questa volta, il giudice riconosce i cambiamenti sociali avvenuti dopo la sentenza Poët del 1884, ma ritiene che la loro valutazione esorbiti dai confini in cui si svolge il suo potere interpretativo. Nemmeno incide la circostanza che la Labriola
insegni all’Università, per consentire l’iscrizione all’ordine degli avvocati (…)- La lettura “strettamente giuridica” delle norme vigenti, a parere del magistrato, esclude la parificazione della donna all’uomo con rigetto conseguente del ricorso. Non demorde la Labriola, e sottopone il problema alla Cassazione romana che, pur confermando l’esclusione dall’avvocatura, segnala la necessità di una normativa apposita: la quale, “vincendo l’ostinatezza e l’attaccamento al passato e la diffidenza delle cose nuove, mettendo da banda ogni pregiudizio e quello spirito di sospetto che offende la donna e più di tutto il magistrato, proclami questo diritto della donna” .

La conclusione vittoriosa della guerra mondiale accelera la procedura parlamentare di
approvazione della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che abroga l’autorizzazione maritale e ammette le donne all’esercizio delle professioni e impieghi pubblici, a eccezione di “quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti o di podestà politiche, o che attengano alla difesa dello stato, secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”, salvo che norme espresse non prevedano anche il conferimento di codesti incarichi.

Solo di sfuggita, va ricordato che un magistrato e un avvocato di Cremona, in tempi e ruoli diversi, intervennero sulla questione. Camillo Pecorara, procuratore del Re, ancora nel 1885 si dichiarò favorevole alle donne avvocato e a una legge ad hoc, ottenendo lusinghieri apprezzamenti nella pubblicistica specializzata, mentre Ettore Sacchi, quale ministro di grazia e giustizia, presentò alla Camera nel febbraio 1917 il progetto di legge sulla capacità giuridica della donna, il cui testo, con le modifiche da lui stesso volute, finalmente introdusse norme attese da lunga data.

Comunque, trascorse più di un decennio prima di avere una cremonese dedita all’attività forense: era Maria Baltieri che, superato l’esame di abilitazione presso la Corte d’appello di Brescia, il 19 settembre 1933 si iscrisse all’albo degli avvocati e procuratori di quella città.Trascorso il periodo di sei anni nel ruolo di procuratore ‘lodevolmente0 svolto, fu ammessa, nel 1940,all’albo degli avvocati di Cremona. Con la conquista delle libertà democratiche, le prime donne a praticare l’avvocatura nella nostra provincia sono state Elena Soldi Castelli e Nicoletta Mansueto , rispettivamente a Cremona e Crema.

La presenza femminile nell’Ordine, incrementatasi nel tempo, è oggi preponderante: al 12 maggio 2021, sul totale di 550 avvocati, 296 sono donne e 254 uomini.

 

 

Francesco Nuzzo

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