Downton Abbey 2. Una nuova era non deluderà di sicuro la schiera degli aficionados, che seguono da anni le vicende della famiglia Crowley e della servitù, prima in un lungo serial ed ora nei film che ne sono derivati, e che sembrano assumere a loro volta la struttura della serie. Niente di nuovo in questo: dai primordi della letteratura esistono generi (dalla commedia al feuilleton) che sollecitano il gradimento dei lettori, semplicemente riproponendo loro, leggermente variati ed
arricchiti, gli stessi caratteri e gli stessi clichés narrativi. Cambia magari la situazione di partenza, lo spunto narrativo iniziale, ma quest’ultimo deve essere pronto ad accogliere i soliti, accattivanti luoghi comuni. Il piacere di chi legge o assiste alla rappresentazione non sta nell’imprevisto o nel colpo di scena, ma proprio all’opposto, nel ritorno uguali a sé stesse delle situazioni tante volte viste e godute.
Il nuovo film si basa sopra due idee portanti, che si intrecciano, costringendo anche il cast originario a separarsi in due gruppi: la notizia di una misteriosa eredità in Francia (una villa principesca offerta alla matrona Violet Crowley, una Maggie Smith di incomparabile simpatia), e la proposta di una troupe cinematografica di girare, nei locali di Downton Abbey, una pellicola originariamente muta, ma virata poi in una versione sonora grazie ai talenti nascosti dei padroni di casa e di alcuni esponenti della servitù. Il tutto, come sempre, condito di leggerezza e di sontuosi costumi, di accuratezza nelle scenografie e nei rituali mondani dei personaggi (godibilissime, in particolare, le sequenze che illustrano i preparativi per il film, e i trucchi necessari per aggiungere il sonoro alla pellicola). Alla fine, come è tipico delle commedie, tutto si
ricompone: le falle si chiudono, la bisbetica viene domata, le ambiguità si dissolvono, le vecchie coppie si rinsaldano e le nuove si intrecciano, il mondo del cinema risulta così magico come sembrava all’inizio, e tutti ne faranno parte come se si realizzasse un sogno.
Se è possibile proporre un confronto ardito, mi piacerebbe paragonare l’intera saga realizzata da Julian Fellows (lo sceneggiatore e vero artefice; il regista presta solo la sua competenza professionale) con la poesia di Folgòre da San Gimignano, un porta–giullare del tardo Duecento, che ha fatto rivivere nei suoi sonetti non la realtà, ma “il sogno”, il desiderio idealizzato della brigata di giovani e ricchi borghesi di Siena. Si desidera per loro un’esistenza serena e senza intoppi (o con difficoltà facilmente superabili), fatta di giochi, balli e cibi raffinati. Pur nella sua cura scenografica e nel realismo ambientale e storico, anche Downton Abbey è un sogno, l’idealizzazione di un’esistenza quieta e patriarcale, in cui i nobili reggono la comunità a loro affidata con generosità e tolleranza, e i servitori sono affezionati alla casa e legati ai signori: pronti ad affrontare le sfide della modernità, accettandole e adattandovisi, senza mutare nella sostanza uno stile di vita che è trascorso placido e rassicurante nei secoli. Le turbolenze passano, i dissapori vengono ricomposti, i salti di classe tollerati, sia pure a fatica e a condizione che i nuovi arrivati si adeguino ai vecchi, fin quasi a confondersi con loro. Si tratta di una scelta appagante: la folla di contadini e fittavoli si schiera accanto alla bara della matriarca accompagnandola al cimitero.
Beninteso, gli autori non sono così ciechi da non vedere la realtà: non raccontano una favola, ma idealizzano l’esistente senza nascondersi le crepe e il decadimento in agguato (il tetto dell’antica ed imponente magione che fa acqua, e servono i soldi dei produttori cinematografici per ripararlo, è un simbolo fin troppo trasparente). Ma non è su questa realtà che gli autori puntano lo sguardo, ma su quello che gli spettatori (tutti gli spettatori ma forse ancor più gli inglesi che hanno creduto e favorito la Brexit e sognano l’Inghilterra imperiale) vogliono vedere, e desiderano intensamente che sia così. Il sogno vince sulla realtà, e lo fa con spirito, intelligenza, partecipazione emotiva. Non è certo poco.
Vittorio Dornetti