Della giustizia civile soprattutto, ma anche di quella penale o amministrativa, ormai il cittadino medio sa molto, e spesso anche per cognizione diretta. Della giustizia tributaria, invece, i più ignorano pure l’esistenza. In effetti è figlia di un dio minore, perché non prevista dalla Costituzione (come quelle ordinaria, amministrativa e contabile) e perché è gestita da giudici part-time (attualmente circa 2.600), provenienti da varie categorie professionali (magistrati, avvocati, commercialisti, geometri, ingegneri, funzionari pubblici, notai, ecc.), senza alcuna tutela lavorativa, pagati ‘a cottimo’. E male. Tuttavia la giurisdizione tributaria esplica una funzione di primaria importanza nello Stato di diritto: il controllo sul corretto esercizio (e quindi sulla legittimità) della pretesa fiscale dell’Erario e di altri enti pubblici nei confronti dei cittadini in relazione ai servizi essenziali ad essi assicurati e alla loro capacità contributiva (art. 53 Cost.) e quindi, in definitiva, la tutela del diritto/dovere di ciascuno a corrispondere il giusto e il dovuto. Un’attività pertanto davvero indispensabile, sia per i singoli cittadini-contribuenti, sia per il bilancio nazionale, soprattutto in tempi di difficoltà economica come questi che attraversiamo.
Per conoscere meglio l’ambito dell’argomento, si ricorda che – nel 2019 – il valore complessivo delle controversie (quasi 190.000) presentate alle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali (i due gradi del giudizio di merito) ammontava a circa 22,8 miliardi di euro di pretesi crediti erariali. Mentre il valore delle controversie definite nello stesso anno ha raggiunto 24,7 miliardi di euro. E’ giustificata quindi l’attenzione dedicata negli ultimi tempi a questa giustizia ‘cenerentola’, che tuttavia – lo si ribadisce – è fondamentale per le casse dello Stato. In un Paese di ‘furbi’, dove impera l’elusione se non l’evasione fiscale, sicuramente essenziali sono gli accertamenti degli enti impositori e della Guardia di Finanza per limitarla. Ma altrettanto decisiva è la funzione del giudice tributario, sia quale garante del corretto esercizio del potere impositivo dello Stato, sia quale tutore delle legittime pretese erariali, che non possono restare paralizzate da strumentali e dilatorie opposizioni del contribuente.
Più agile e spedita di quella ordinaria, almeno nelle due fasi di merito, la giustizia tributaria è certamente retta – rispetto alla prima – da regole processuali meno articolate e garantiste, ma forse proprio per questo meno ostruzionistiche e in concreto più efficaci. La peculiarità più saliente della giurisdizione tributaria di merito (secondo me, il ‘valore aggiunto’) è la composizione ‘mista’ degli organi giudicanti, affiancandosi – come si è detto – ad un presidente di formazione prettamente giuridica (un magistrato di professione), competenze tecnico-scientifiche diverse e più specifiche in relazione alle svariate e differenti materie da esaminare. Il collo di bottiglia di questo procedimento, purtroppo, è costituito però dall’eventuale terzo grado di giudizio, quello di legittimità, innanzi alla Corte di Cassazione. Infatti ormai le controversie tributarie costituiscono oltre il 50% delle questioni civili che impegnano la Suprema Corte.
Sotto il profilo statistico si rileva che, dal 2011, si è verificato un costante calo delle pendenze, attualmente di poco superiori alle trecentomila controversie, per un valore complessivo di circa 40 miliardi di euro. Tale calo è di certo conseguenza, oltre che delle ‘sanatorie’, più o meno velate, e della cosiddetta rottamazione delle cartelle, anche delle procedure di definizione agevolata delle controversie tributarie. Nonostante il volume degli affari trattati e il loro rilievo economico, però, e nonostante che anche il giudice tributario debba essere – come prescrive l’art. 111 della Costituzione – terzo e imparziale, gli organi giudicanti di merito continuano a denominarsi ‘Commissioni Tributarie’ (provinciali e regionali), quasi fossero delle propaggini del ministero delle Finanze, benché siano invece a tutti gli effetti dei veri e propri tribunali e corti di appello specializzati in materia, tanto che – come si è detto – le sentenze di queste ‘commissioni’ sono ricorribili in Cassazione.
Anche sotto il profilo dimensionale molto poco differenzia questi organi giurisdizionali speciali da quelli ordinari. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma, ad esempio, conta: 54 sezioni, quasi 300 giudici, un centinaio di funzionari amministrativi; in concreto poco meno del Tribunale di Roma quanto a magistrati, ma con un maggior numero di sezioni. E certamente maggiore produttività e celerità di giudizio.
Perché allora sarebbe una giustizia deminuta? Soprattutto e innanzitutto per la dipendenza sia burocratico-amministrativa che finanziaria dal ministero delle Finanze (MEF) che – com’è noto – rappresenta la controparte del contribuente nella maggioranza dei processi tributari. Infatti dal MEF dipende direttamente il personale non giudicante delle Commissioni Tributarie che costituisce le ‘segreterie’, con un proprio autonomo dirigente all’interno di esse, ed è il MEF che fornisce i mezzi strumentali per il funzionamento degli uffici e che determina e corrisponde i compensi ai giudici tributari. E’ poi su precise direttive del MEF che è stato ideato e programmato il processo tributario telematico, ora finalmente in vigore, così come solo il MEF dispone del sistema per il monitoraggio e il controllo statistico dell’attività dei giudici tributari e del funzionamento della giustizia tributaria. Si consideri che anche la mediazione, introdotta nel 2011, deve essere proposta all’organo impositore e da questi in definitiva decisa. Praticamente è una delle parti processuali a finanziare, controllare e in sostanza gestire il sistema, cosa inammissibile in uno Stato di diritto che garantisce costituzionalmente la parità delle parti nel giusto processo (art. 111, comma 2, Cost.).
Un giudice tanto legato all’amministrazione di cui deve valutare i provvedimenti, anche se integerrimo, certamente non ispira fiducia al contribuente. E’ vero che esiste un organo di autogoverno anche dei giudici tributari (Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria), ma anche questo purtroppo continua a dipendere strettamente – sotto il profilo finanziario e organizzativo – dal MEF, con ovvie ripercussioni (e non solo di immagine) sulla sua effettiva autonomia.
Deve poi aggiungersi l’assoluta inadeguatezza del sistema di retribuzione dei magistrati tributari, molto al di sotto anche di tutti gli altri giudici onorari, se rapportato al valore di non poche delle cause trattate, in contrasto con le pronunzie della Corte costituzionale e delle Corti comunitarie, secondo cui il giudice deve beneficiare di una remunerazione e di una copertura previdenziale adeguati e garantiti dalla legge, che lo mettano al riparo da ogni indebita influenza. Invece i magistrati tributari – considerati i miseri compensi di cui ‘godono’ – possono permettersi di esercitare le proprie rilevanti funzioni istituzionali soltanto come secondo lavoro, da svolgere dunque nel tempo libero.
Questi e tanti altri i problemi da affrontare per conferire dignità ad un’importante e indispensabile funzione giurisdizionale, tanto che da tempo si avverte, sempre con maggiore impellenza, la necessità di riorganizzarla e riformarla, anche se con andamento ondivago e disegni addirittura opposti. Si va, infatti, da chi vorrebbe abolire del tutto questa quarta giurisdizione, assegnando la relativa materia al giudice civile o al giudice contabile, a chi intende invece rinforzarla, professionalizzandola, e cioè attribuirla a giudici, pur sempre di provenienza ‘mista’, che vi si dedichino però a tempo pieno con adeguata retribuzione e guarentigie, nell’ambito di un regolare rapporto di lavoro subordinato col ministero di Giustizia. Non mancano sull’argomento anche altre proposte mediane.
Al momento, di queste prospettate riforme ritengo preferibile la seconda, sia per non gravare altre giurisdizioni, in special modo quella ordinaria, già oberate al punto da registrare ritardi biblici a tutti noti, sia perché la giustizia tributaria, quantunque con i limiti indicati è tuttavia – lo si ripete – la giurisdizione che ad oggi funziona se non altro più celermente e con risultati tutto sommato accettabili anche nel merito, con indubbio vantaggio dei cittadini-contribuenti e delle casse dello Stato. Non è questa la sede per approfondire più di tanto il discorso de iure condendo, ma comunque si confida in una prossima riforma della giustizia tributaria seria, meditata, cauta e approfondita, senza farsi prendere la mano da esigenze di cambiamento ad ogni costo, o peggio ancora di … rottamazione.