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Dalla lezione di Mattei e Marcora alla perdita dell’interesse nazionale

15 Giugno 2022

GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI

Ecco un commento, colto per caso, sulla nostra dipendenza energetica dal gas russo: avremmo bisogno di un nuovo Enrico Mattei ma se n’è perso lo stampo. Vero. Enrico Mattei, mitico manager del petrolio che creando nel 1953 l’Eni dalla smantellata Agip sfidò il monopolio petrolifero delle ‘Sette sorelle’ e fece un decisivo regalo allo sviluppo del nostro Paese. Alla fine degli anni 50 la nostra benzina era la meno cara in Europa, diventavamo la quarta potenza mondiale e la lotta della piccola Italia di Mattei contro giganti petroliferi tipo Shell – moderno duello fra Davide e Golia – trovava udienza persino nelle simpatie democratiche di John Kennedy. Già, ma dov’è un nuovo Mattei? Domanda pertinente. Caso vuole che la risposta vada a incrociarsi con la recente scomparsa di Ciriaco De Mita. Avellinese, big democristiano di rito sinistro e finissima intelligenza diabolicamente perfezionata nell’incubatrice di quell’università Cattolica di Milano da cui uscirono molti dei cavalli di razza scudocrociati di cui l’Italia è tuttora indiretto ma incontrastato feudo. Cavalli di razza, ma tutt’altro che santi. Iniziatori, anzi, di un machiavellico e quasi carnale modo d’intendere l’esercizio del potere e l’intreccio fra santità dei fini e durezza dei mezzi. Accostare Mattei a De Mita può apparire bizzarro e, antropologicamente parlando, infondato. Il politico di Nusco, un po’ come Moro, era di eloquio raffinatamente oscuro. Per celebrarlo, o incenerirlo, Gianni Agnelli coniò l’immortale sintesi: un tipico intellettuale della Magna Grecia. Di tutt’altra pasta era il marchigiano Mattei, concreto, spiccio, rudemente spregiudicato. Usa i partiti come taxi si diceva di lui: sale, paga e si fa portare dove vuole. Ma a unirli c’era il vincolo -monogamico nell’uno, disinvoltamente aperto nell’altro- con la sinistra democristiana. Vale a dire col gigantesco tema dello sviluppo e della modernizzazione.

Lasciamo parlare le date. Nella primavera del 1950 Giulio Pastore col retroterra culturale dell’Università Cattolica fondava la Cisl, moderno sindacato di rottura deciso a ripensare le relazioni industriali e a liberare da anacronistiche contrapposizioni ideologiche il rapporto fra padroni e lavoratori cioè fra capitale e lavoro. Nel febbraio ‘53 nascevano l’Eni di Enrico Mattei e, a stretto giro, la corrente dc di Base, con speciale benedizione dello stesso Mattei e immediata adesione di Ciriaco De Mita . La guidava Albertino Marcora che come Mattei veniva da capitanato di prima linea nella Resistenza. Il programma era liberare il partito dall’equivoco clericale, assestarlo su basi di laicità politica e concentrarlo sul tema nordico e subalpino di una modernizzazione che voleva dire tante cose: tecnologia, industrializzazione, autonomia
energetica anche attraverso una rete di relazioni internazionali utile ai nostri specifici interessi, quand’anche non particolarmente gradita all’America. La Base guardava molto al Mediterraneo, perché lì stavano gas e petrolio ma anche un continente ‘polveriera’ troppo vicino a noi per non essere tenuto d’occhio, controllato e nell’interesse generale aiutato a stabilizzarsi.

Se questo vuol dire filoaraba, lo era. E si torna con questo ad attualissimi argomenti. Ma trova anche risposta la domanda iniziale. Un Paese non decolla perché un uomo solo, sia pure d’eccezionale capacità e visione, lo vuole. Decolla se un pezzo di Paese, partecipe di quella visione, lo asseconda e gli fornisce la condizioni necessarie. Attorno alla genialità manageriale di Mattei c’era un’Italia degli anni cinquanta che remava nella stessa direzione e voleva fare di un Paese semi rurale e semianalfabeta, devastato dalla guerra e umiliato nella dignità internazionale, una forte e moderna democrazia industriale. Fu una classe dirigente autorevole e debitamente autoritaria: se un Grillo qualunque con le sue guittesche baggianate si fosse mai avventurato in un faccia a faccia con capitan Mattei o capitan Marcora alla fine del match l’avrebbero raccolto col cucchiaino. E, ipotesi ancor più sostanziosa, la stessa sorte sarebbe verosimilmente toccata anche a tanti Manettari che, a partire da Mani Pulite, hanno diffamato, delegittimato e distrutto una classe dirigente e col deterrente giuridico burocratico hanno fatto terra bruciata della possibilità di averne un’altra di analoga forza. Fu così che nel sistema Italia s’è cronicizzata una debolezza di capacità progettuale e operativa che stiamo misurando nella vergogna dei finanziamenti rimasti nel cassetto e poi persi perché “non sapevamo come impiegarli”. Speriamo vada meglio al famoso Recovery Fund. Siamo ancora in grado di perseguire coerentemente ed efficacemente quell’interesse nazionale di cui la nascita dell’Eni fu il primo tassello? La parola stessa pare ormai smarrirsi, come un impronunciabile egoismo del passato, nella tenaglia della fedeltà europeista e di quella atlantista. E dei relativi, non sempre convincenti, costi sacrificali tipo inflazione all’8%. Il che non toglie che molto si muova in giusta direzione e che la storia si prenda le sue rivincite sulle recenti umane pochezze.

Il giovane Di Maio, per esempio, da ministro degli Esteri si tiene ben stretto il prezioso salvagente Eni e con l’amministratore delegato Descalzi, vola in nord Africa a firmare e rinnovare accordi. Peccato che nel 2015 mentre lui, grillino duro e puro, sognava di spedire all’ergastolo la Sodoma e Gomorra chiamata Eni, Descalzi, che sul da farsi una visione politica ce l’ha e gli viene da quell’alta scuola di diplomazia applicata che è l’Eni, già parlava di creare ‘valore di lungo termine’ operando sulle due sponde del Mediterraneo e usando l’energia come fattore di unione fra Europa, Africa e Medio Oriente. Purtroppo, specie negli ultimi anni, invece che visione abbiamo assistito a inerzia, improvvisazione e ravvedimenti tardivi. Ormai il Nord Africa se l’è comprato la Cina e quanto ad autentica forza istituzionale l’Europa è per ora ferma al palo di pasticciati ‘vorrei ma non posso’. Vorremmo una comune politica estera. Ma resta da capire su quali convergenze. In una Libia sfuggita di mano, gli interessi francesi sono per esempio irriducibilmente opposti ai nostri. Scacciati dalla porta gli interessi nazionali rientrano dunque dalla finestra. E con loro il dubbio se Mario Draghi rappresenti l’operatore del riscatto o il miglior curatore fallimentare in cui, date le condizioni del Paese, si poteva sperare.

 

Ada Ferrari

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