Con la crudeltà non premeditata, ma spontanea e disarmante che si manifesta talvolta nell’infanzia, un gruppo di bambini in età scolare, giocando ai giardinetti, aveva stretto in angolo un piccoletto e lo prendeva in giro cantilenandogli in faccia: “ Ge…Ge… Ge… Gerevini Giorgio! Ge… Ge… Ge… Gerevini Giorgio!”. E infatti il piccoletto era balbuziente: in modo non grave, ma quanto bastava per suscitare lo sberleffo dei coetanei; era anche un po’ strabico e col tempo i compagni di scuola avevano preso a chiamarlo sberlòcio. Certo doveva soffrirne, ma non ricorse mai alla protezione della mamma – che aveva ben altro cui pensare essendo vedova di guerra – , né se ne lamentava con gli insegnanti.
Da adolescente Giorgio cominciò ad assumere modi da sbruffone e con ciò riusciva ad esorcizzare i dileggi. Gli fu così affibbiato il soprannome di Gazìna, un epiteto ironico derivato da gaz, per sottolineare gli atteggiamenti sopra il rigo – da gazato, come usava dire – cui amava ricorrere e il pavoneggiarsi grottesco in piscina dove pretendeva di essere un maestro di tuffi: era davvero comico quando si lanciava dal trampolino di un metro sollecitando l’applauso e suscitando l’ilarità del pubblico. Questa passione maldestra per i tuffi gli procurò un altro nomignolo, Acapulco, che però mostrava curiosamente di gradire; tant’è che a fine giornata, quando se ne andava dalla piscina per tornarsene a casa, salutava le ragazze canticchiando soddisfatto: “Acapulco tropical vi fa il cuore palpitar, buenas noches!”. Da giovanotto amava vestirsi in modo vistoso e alcuni suoi capi d’abbigliamento ricalcavano quelli dei boss americani: oltre al doppio petto gessato e al Borsalino di prammatica, aveva un paltò cammello – con la cintura stretta in vita e gli ampi revers – che doveva piacergli molto perché lo portò fino alla consunzione. Allo struscio sul corso o in galleria tentava con goffaggine un po’ aggressiva l’approccio con le ragazze, ma queste reagivano infastidite o, peggio, deridendolo. Stupido però non era – si era diplomato ragioniere e in seguito laureato in economia e commercio – e sapeva anche essere divertente: era solo strano, un originale insomma, fuori dagli schemi.
In quegli anni morirono la madre e uno zio rimasto scapolo che gli lasciò un’ eredità discreta: non una fortuna, ma quanto bastava per consentirgli un po’ di tranquillità. Poi, superata la trentina, Giorgio cominciò ad incupirsi e a lasciarsi andare; divenne sciatto nell’abbigliamento e si prendeva così poca cura della propria persona da risultare sgradevole. Con ciò ottenne che i pochi amici abituati ad intrattenersi con lui, quando lo incontravano, lo evitassero. Persino la sua vicinanza si era fatta imbarazzante; Umberto, che più di tutti aveva resistito – un po’per abitudine e un po’ per compassione – fu l’ultimo ad abbandonarlo. Giorgio accettò la situazione senza reagire, ogni giorno più solo, giungendo a poco a poco quasi a smaterializzarsi, a evaporare dalla vita.
Ormai nessuno si ricordava di lui: era come se fosse trasparente, come se non esistesse. E così passarono diversi anni. “Tilde, hai preso i cornetti?” chiese l’Umberto mentre si sedeva a tavola per la prima colazione. “Li ha portati su adesso la Silvana… eccoli” e la Tilde posò sul tavolo, davanti al marito, il sacchetto dei cornetti. L’Umberto cominciò a pregustarli con gli occhi: fragranti, appena usciti dal forno, ancor tiepidi. Poi ne addentò uno… socchiuse gli occhi per gustarlo meglio… gli si scioglieva in bocca. Per lui una buona colazione del mattino era un rito indispensabile; diversamente avrebbe affrontato la giornata di pessimo umore. Dopo il primo cornetto si versò il tè, vi aggiunse un filo di latte freddo e cominciò a sfogliare il giornale. Rimase di stucco quando vide la fotografia di Giorgio su un articolo a quattro colonne, dove si diceva che si era ucciso sparandosi in bocca con un fucile da caccia. Aveva da poco compiuto quarantadue anni. Alla sorpresa fece subito seguito un senso di colpa vago e spiacevole: come se, in qualche misura, avesse contribuito anche lui – l’Umberto – a quella disperazione insondabile; come se anche lui avesse avuto una parte, sia pur piccola e imprecisata, in quel gesto estremo. Ma l’improvviso malessere – quell’ inattesa crisi di coscienza – non durò molto. ‘Si sa’- pensò l’Umberto – ‘la vita può metterci di fronte a situazioni di dolore e insensatezza verso le quali siamo impotenti: e se, per una suggestione momentanea, può sembrarci di condividerne qualche responsabilità non dobbiamo lasciarci sommergere da rimorsi immaginari.’
La cronaca nera, con una sorta di solidarietà postuma, aveva snidato per un giorno Giorgio Gerevini – detto Gazìna, detto Acapulco – dalla fitta nebbia dell’oblìo in cui, da vivo, era stato avvolto per anni. Quanto al resto, Parce Sepultis.
Gianni Carotti
Tratto da “L’occhio di Samuele” – Ed. Campanotto
3 risposte
Direi un ritratto tratteggiato in modo completo ed elegante…conoscevo “Gazina” alla Balde…era più grande di me e mi intratteneva nei lunghi pomeriggi estivi in piscina quando d’estate facevo il bagnino…sapevo della sua laurea…lo chiamavano Gazina…a lungo lo salutai con un”Buongiorno Dottor Gazzina!”…
Roberto
Ollapeppa Gianni…. che bello, ma quanta tristezza!!!
Bravo inge, un racconto intenso e molto vero, anch’io ho conosciuto Gazina