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Elettori truffati: Bettini (Pd) e l’elogio dell’imprevedibilità politica

15 Agosto 2022

GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI

Più assillanti dei testimoni di Geova, più litigiosi dei polli manzoniani, più spergiuri di una televendita di creme anti età. In piena nevrosi autopromozionale, la politica alla vigilia del voto si presenta agli elettori nel suo volto meno composto e in molti casi meno convincente. Ovvio che in questa forma dovremo subirla fino al sospirato 25 settembre che, comunque vada, sarà una seconda Liberazione. Dopo qualche giorno di ulteriore alluvione mediatica, in cui naturalmente apprenderemo che nessuno ha perso, calerà il sipario sulla telenovela. Spiace e imbarazza chiamarla così. Senonché è proprio questa la chiave di lettura che un pezzo di sistema esplicitamente offre di sé, quasi a suggerire: non prendeteci sul serio, stiamo scherzando e la nostra capacità di stupirvi è pressoché infinita. Come altrimenti interpretare l’ultima boutade di Goffredo Bettini, sornione e celebrato guru del Pd? Il quale, osservo per inciso, se davvero fosse il Richelieu di Letta, non lavorerebbe per la sua vittoria ma per la sua sconfitta, posto che, per antica consuetudine, meno la sinistra italiana vince e più s’incardina al potere. E governa. Ma torniamo all’attualità: lo stratega di Letta, e fan di Conte, si compiace di informarci che magari, dopo il voto, gli amorosi sensi fra Pd e 5 Stelle potrebbero riaccendersi, riavvolgendo il nastro della storia e nuovamente ribaltandone i ballerini assetti. E allegramente ne conclude che “ il bello della politica è la sua imprevedibilità”.

Eh no. Così non si fa. Una regola non scritta ma prudenzialmente praticata sconsiglia l’esercizio del bullismo psicologico ai danni del futuro elettore. Al contrario, quest’elogio dell’imprevedibilità ha il cinico retrogusto di chi si diverte a infierire sulle fragili certezze che ci accompagneranno alle urne. Sconcerta e confonde fino all’ultimo istante, insinuando il sibillino sospetto che niente è come sembra e che tutto e il contrario di tutto ancora può e potrà succedere. Degna
conclusione di una legislatura singolarmente sismica in cui i cambi di postura e casacca hanno assunto, quanto il covid, proporzioni pandemiche. E tuttavia, la novità c’è: il peccatore è ora orgoglioso reo confesso. Quel che fino a ieri era giudicato anomalia cui porre rimedio, opportunistico trasformismo, truffaldino malcostume ai danni dell’elettore, oggi viene normalizzato ed elevato a sistema. Eccoci infatti all’elogio dell’imprevedibilità politica. Si direbbe che l’istrionica lezione teatrale inaugurata anni fa da Grillo abbia fatto scuola regalando a politiche e politicanti impari rispetto alle monumentali criticità del Paese la via di fuga di scoppiettanti canovacci teatrali intessuti, come tradizione vuole, di colpi di scena, amori, tradimenti, rotture, ritorni di fiamma, nonché di quelle intriganti anticipazioni del futuro cartellone che ogni abile impresario teatrale, Bettini compreso, elargisce al pubblico con sapiente dosaggio di velate allusioni.

Per quanto ci si ingegni a trovare qualche coerenza e qualche conto che finalmente torna, i guastatori in perenne agguato sono pronti a riconfonderci le idee. E’ il caso del perfido neologismo coniato e da poco messo in circolo da Calenda e Renzi, la coppia più glamour del novello jet set politico. La parola in questione è ‘bi populismo’ e allude a un certo tasso di populismo presente in entrambi gli schieramenti che, dunque, non mancherebbero di paradossali somiglianze. Una frecciata del genere all’indirizzo della coalizione di centro sinistra, se non è letale, è parecchio cruenta. Ma senza nemmeno darti il tempo di rifletterci, ecco che Renzi, insuperato John Travolta del paradosso, è già pronto a dichiarare che in caso di Paese in emergenza -allusione peraltro imprecisata- non esiterà a correre in aiuto dei difensori della democrazia, ovviamente concentrati nel bastione sinistro del sistema. Ma non aveva appena detto che sono populisti pure loro? Pietà. E che il superiore decoro del silenzio ci soccorra e salvi da questa incontenibile colata di estemporanee suggestioni travestite da lapidarie sentenze storiche.

Scontato osservare che il mulino a vento di parole che ci assedia e ubriaca ha assai a che fare con la piega impressa al rapporto fra politica e opinione pubblica dall’imporsi dei social. Il logorroico vizietto, guarda caso inaugurato a suo tempo da Renzi e Salvini coi famosi ‘ditelo a Matteo’, rapidamente si è convertito da sassolino in valanga: grafomani digitali, bastian contrari e buontemponi di tutta Italia scriveteci, noi vi risponderemo, alacremente sferruzzando con voi giorno e notte, festività comprese, un cicaleccio di mediocri esternazioni che fingeremo di scambiare per l’età di Pericle della democrazia diretta. Ormai, piaccia o no, è nell’idraulica di Rete che si sta trasferendo la terza Camera del sistema mentre la parola twittata col suo estemporaneo carico di personali sentimenti e risentimenti rischia di diventare il crocevia decisivo in cui si definiscono e ridefiniscono in costante divenire umori e orientamenti sia di eletti che di elettori. Una silenziosa erosione quotidiana sta investendo competenze e ruoli di quel che fino all’altro ieri s’intendeva per democrazia rappresentativa. Personale politico di ogni rango, col relativo staff di scribacchini e curatori di immagine, più che rappresentare gli elettori, appare ormai primariamente impegnato nella narcisistica auto rappresentazione di se stesso. Ma i contribuenti italiani sovvenzionano forse parlamentari, ministri e leader di partito per sentirsi raccontare, in una straripante diaristica infarcita di adolescenziali sentimentalismi, quanto doloroso è stato rompere l’alleanza con Tizio, quanto travagliato allearsi con Caio o quanto, nonostante il mancato matrimonio, vogliano ancora bene a Sempronio? Non credo. Gli italiani, in legittima attesa di fatti, sovvenzionano la baracca perché gli interessati investano il loro tempo e le loro energie nell’impervia impresa di far ripartire il Paese. E non si capisce come mai una verità tanto naturale incontri così coriacea resistenza dei destinatari.

Alcuni lapsus ahimè frequenti – come il classico “Non regaliamo il Paese alla destra”- involontariamente raccontano quanto di paternalistico, se non padronale, sopravviva nel modo di guardare all’opinione pubblica e al corpo elettorale. E’ d’obbligo ricordare che, per quanto delusi e sfiniti, gli italiani non sono un pacco ‘regalabile’ che passivamente  possa esser passato di mano o consegnato per errore all’avversario. Fra Palazzo e società civile va dunque ritrovata una più corretta postura. Ma in quale modo il Paese reale può dar segno di esistere e di esistere in modo non passivo e non rinunciatario? La via è una sola: vincendo la tentazione dell’astensionismo e votando. Sì, votando. Fra tante incertezze, di una certezza non smentibile ancora disponiamo: una cabina elettorale e un social non sono la stessa cosa. E l’esercizio democratico, nella pienezza della sua dignità ed efficacia, ancora e sempre passa per una croce tracciata su un simbolo.

 

Ada Ferrari

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