GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI
“Non mi ricandido. Ho le idee confuse anch’io”. A chi lo dice, caro ministro. Durante il recente summit degli industriali a Cernobbio, Renato Brunetta ha dichiarato di volersi prendere una pausa di riflessione nell’incertezza del futuro. Condizione in verità comune a milioni di elettori che stanno faticosamente decidendo su quale traghettatore investire le residue speranze di uscire vivi dalla ‘tempesta perfetta’. E fra gli ingredienti della tempesta perfetta non manca, anzi grandeggia, una debolezza della politica che quanto a credibilità e autorevolezza, prezioso mix meglio noto come carisma, è da tempo ai minimi storici. Problema serio nel momento in cui si appresta a compiere scelte impopolari e a chiedere alla comunità nazionale non comuni sacrifici. Siamo lontanissimi dalla simbiosi ideale e morale, ancor prima che
istituzionale, che in circostanze diverse ma analogamente emergenziali, strinse gli inglesi a Churchill, i francesi a De Gaulle o gli italiani a De Gasperi. La comunità nazionale che il 25 settembre andrà al voto nutre a torto o a ragione sentimenti tutt’altro che teneri verso il ceto politico. E, in forza di quell’istinto che anche nei meno ‘imparati’ sa fiutare che aria tira e raramente sbaglia, appare restia a concedergli rispetto per la semplice ragione che non ritiene di riceverne.
Se ‘leggere i segni dei tempi’ è attitudine largamente popolare, oltre che notoriamente profetica, quel che il Paese reale fiuta da un bel po’ è , per dirla crudamente, aria di democrazia commissariata. Pur sempre democrazia, intendiamoci. Ma guardata a vista da tutori pronti a correggerne o a prevenirne eventuali ‘passi falsi’. Basta guardare le modalità con cui voteremo, a cominciare dalla più odiosa: l’impossibilità di esprimere quelle preferenze che in passato avevano garantito all’esercizio del voto un pur modesto valore di selezione meritocratica. E dire che a tal punto difettiamo di meritocrazia seriamente praticata e di eccellenze in cui confidare che due anni fa, a un passo dal baratro, la politica fu costretta ad affidarsi all’altro da sé e a chiedere a un banchiere di accollarsi il salvataggio.
Analogo ‘pollice verso’ circa la pratica di paracadutare candidati su collegi territorialmente estranei: decisivo passo nell’allontanamento del Palazzo da quel Paese reale che ha nei concreti bisogni dei territori la sua natura più autentica. Reciso quel cordone, la famosa democrazia rappresentativa cos’altro può rappresentare se non l’eterno gioco degli interessi lobbistici e corporativi? Questo avvitarsi della politica su se stessa in forme sempre più pericolosamente autoreferenziali è, storicamente parlando, faccenda vecchia quanto il mondo: il potere nelle sue fasi di debolezza è solito sopperire con l’autoritarismo all’autorevolezza che non possiede più. Le segreterie dei partiti si blindano in un ‘posso, voglio, comando’ che sta liquidando ogni interna dialettica pur vagamente pluralistica.
Quanto ai rapporti coi serbatoi culturali che per decenni garantirono ai partiti qualche scampolo di decenza e intelligenza, i ponti sono stati tagliati da un bel po’. Crescono e vegetano al loro posto super consiglieri di tutt’altra natura: ‘cerchi magici’ parentali e clientelari che affollano la cupola dei partiti spingendo a preoccupanti livelli il loro tasso di opacità interna. Le procedure di una democrazia rappresentativa, a cominciare dal voto, sono ovviamente intatte ma all’interno del frutto, esteriormente integro, lavora da tempo il baco che ne divora polpa e succo. Se, a proposito di democrazia commissariata, la debolezza della politica è dunque la prima criticità con cui fare i conti, la seconda è da cercare nell’irruzione, raramente così massiccia e dirompente, della politica estera dentro quella interna. Ovvio che occorre intendersi sulle parole. Il decorso di una democrazia commissariata non ha nulla in comune con l’esperienza novecentesca a sproposito evocata: nessun dittatore è dietro l’angolo. I rischi vanno cercati altrove, più precisamente nel punto in cui la nostra debolezza è costretta a fare i conti con l’altrui forza. Da un lato, infatti, il Paese subisce i contraccolpi di una politica dal sistema nervoso logoro e impegolata nel gioco al massacro di una delegittimazione reciproca sempre più simile a un’inedita guerra civile furiosamente guerreggiata non solo fra gli schieramenti ma
persino al loro interno. Dall’altro è esposto alla severa forza impositiva di tutti i sistemi sovranazionali in cui siamo collocati con obbligo, se non di compiacerli, quanto meno di non dispiacerli: dalla Comunità europea a un capitalismo finanziario transnazionale che di fatto ne detiene le quote di maggioranza e i conseguenti diritti di veto.
Accade dunque che, alla vigilia del voto, note stonate, indizio di indigerito apprendimento democratico, ne girino parecchie. E’ il caso delle allusioni sempre più esplicite alla necessità di sottoporre a ‘restyling’ il futuro risultato elettorale qualora il verdetto delle urne non abbia il gradimento dei patroni internazionali di cui il centro sinistra è intransigente guardiano. Cuochi stellati o aspiranti tali stanno già indicando ricetta, ingredienti e financo dosaggi della maggioranza parlamentare in grado di neutralizzare l’esito elettorale in modi costituzionalmente ineccepibili: occorre “eliminare le estreme”, ghigliottina dunque sul quel che sta a sinistra di Letta e a destra di Berlusconi. Ghigliottina, soprattutto, sulla testa quasi coronata di Giorgia Meloni. Il mantra del giorno è “la destra non deve vincere” o persino i ghiacciai alpini, partecipi del lutto cosmico, si scioglieranno più in fretta. Pur tentata, non entro nel merito politico delle rispettive ragioni o dei rispettivi torti. Mi limito alla nuda domanda: perché scomodarsi a votare se il da farsi è già scritto e la ricetta del giorno dopo già pronta?
Ada Ferrari