“Tutti si portano addosso il lavoro che fanno”.
Io non volevo puzzare. Né di pesce, come mio padre e mia madre, né di zolfo come mio fratello.
Io volevo profumare di fiori, come la zia Assunta.
Avevo dieci anni.
“Da domani inizi a travagghiare” mi dissero, e non dormii la notte al pensiero che avrei puzzato anch’io. Quelli che non puzzano, secondo mio padre, o sono nobili, o traffichini. A me faceva schifo la puzza, e sì che c’ero abituata. “Ci fai il naso” diceva lui, ma lo schifo mi era venuto fuori tutto assieme, con lo spuntarmi dei peli e la crescita del petto. Fu allora che iniziai ad avere vergogna della mia famiglia, che sapeva di pesce e zolfo.
Quella mattina aspettai, ma non successe nulla. Al calar del sole: “Vieni con me”, mi disse la zia Assunta.
Ho iniziato così.
Io c’ero stata tante volte alla piana di Milazzo, piena di luce e vasta, digradante verso il mare. Superato un vallone si apriva a perdita d’occhio una distesa di cespugli intricati, un ammasso selvaggio verde intenso, dove api e calabroni facevano festa. Ogni tanto un viottolo appena accennato, e i canali d’irrigazione tutt’attorno. Di spianate come queste ce ne sono tante, da queste parti, e “ringraziamo Dio che l’acqua non manca, e tra mare e terra le famiglie hanno di che campare” diceva padre Romolo, e ci dovevamo credere, anche se mia zia arricciava il naso e a bassa voce mi diceva: “Tutte minzugnarìe. Lui lo sa che non è così ma non lo può dire, sennò a rivoluzione finisce”.
Io c’ero stata tante volte alla piana, ma di notte mai.
C’era solo una falce di luna, quella notte, e alla luce delle torce le donne giungevano da ogni trazzera, tutte dirette alla piana, e andavo avanti come per inerzia, trascinata, spaventata da ogni cosa nascosta che poteva assalirmi. Quanto camminammo non lo so: tutto si allungava come le nostre ombre, anche la distanza; le cime dei cipressi si perdevano nel buio e non c’era silenzio, no, ma tanti rumori sconosciuti, e mi batteva il cuore.
“Non ti scantare” diceva zia Assunta, tirandomi per il braccio, quando sussultavo al volo di un uccello notturno o allo scricchiolio di un ramo secco calpestato.
Arrivammo alla piana che già brulicava di corpi. Erano donne, piegate in due, il fazzoletto in testa e le mani a frugare nel buio.
Zia Assunta mi legò in vita un grembiule: “Cògghili e mettiteli in tasca”.
Spenta la torcia, quando gli occhi si abituarono al buio, spuntarono le stelle. Non in cielo, ma tra la macchia scura. Bianche, delicate, appena schiuse alcune, altre già aperte e fragranti. I gelsomini erano centinaia, che dico, migliaia. E tra i cespugli profumati le donne avanzavano chine, ordinate, come se un generale avesse stabilito tu di qua tu di là; alcune portavano, legati sulle spalle, i neonati addormentati; molte erano seguite da ragazzine come me, addette a raccogliere i fiori che al primo passaggio restavano dimenticati.
Si lavorò in silenzio, chi con gli zoccoli, io coi piedi nudi che affondavano nel terreno e le gambe, pizzicate dagli insetti, che s’impigliavano ai rami; le mani svelte, umide di rugiada e le tasche che iniziavano a riempirsi. Solo ogni tanto una parola. Stai bene? chiedeva una. Brava, brava, diceva un’altra. Le mie dita a un certo punto non risposero più. “Poi ti passa” mi disse zia Assunta, lo sguardo appuntato sui fiori. Gli occhi mi si chiudevano dal sonno.
L’alba era ancora lontana.
Quella strada imparai a farla senza paura e senza torcia, anche con la luna nuova.
Diventai brava presto. Non era difficile: le mani di una bambina sono piccole e le dita affusolate, mobilissime. All’inizio d’odore intenso mi dava il mal di testa, ma non ci facevo caso. Quando iniziò a dolermi la schiena, il mal di testa me lo scordai. E quando i piedi s’infiammarono e si ricoprirono di ponfi pruriginosi e mi salì la febbre, scordai pure il mal di schiena. Mi cucii un grembiule con una grande sacca, come le altre. I caporali ci aspettavano al limitare della piana, che albeggiava appena. Versavamo i fiori nelle ceste pronte per la pesa: venticinque lire al chilo, ci davano. Ero veloce e in una notte riuscivo a portare a casa quasi cinquanta lire. Non dovevo sfamare nessuno, e quando mi fidanzai con Michele una volta al mese papà mi lasciava i soldi per andare al cinema con lui. Mi sentivo importante: col nostro lavoro i francesi ci facevano profumi di lusso.
E io profumavo di fiori.
Per Michele quella paga era una miseria. Avrebbero dovuto darci gli stivali, le cesoie, i turni per farci stare qualche notte coi mariti e pagarci almeno il doppio al chilo. “Vi sfruttano, dovete protestare”. Noi non osavamo alzare gli occhi sui caporali: caricavano la bilancia e la svuotavano in fretta, e se qualcuna voleva vedere chiaro il peso, spingevano con disprezzo. “Che vuoi? Va’, vattìnni”. La protesta? Chi eravamo, noi, per protestare? Ci avrebbero messo in galera, subito. E sai quante, pronte a lavorare al posto nostro!
Però Michele aveva ragione: avevo ventitré anni e non m’importava più l’odore che facevo.
Portavo le fasce ai piedi: la pelle era come carta velina, macerata dall’umidità.
Tra quelle che erano cresciute con me tra i gelsomini, c’era qualcuna che la pensava come Michele; discutevamo, curve sui cespugli, che passavano gli anni ma non cambiava nulla, solo noi stavamo sempre peggio. “Non può continuare così, dobbiamo fare qualcosa” dicemmo un giorno, parlandoci nelle orecchie. “Ci perdiamo la salute, appresso ai gelsomini”. “E pure gli uomini” aggiunse un’altra. Molte scossero la testa e tornarono alla raccolta, silenziose. Inutile protestare, pensavano. Tra un paio di mesi la fioritura sarebbe finita e con essa anche il poco guadagno.
La guerra aveva aumentato la miseria, c’era da sfamare la famiglia, i soldi non bastavano mai.
Nell’agosto del ‘46 il caldo era insopportabile: le zanzare ci succhiavano la faccia e le braccia, i piedi sanguinavano per i morsi degli insetti. Da due giorni il vento di scirocco non dava tregua e i gelsomini andavano consegnati prima dell’alba. I caporali ci aspettavano seduti sotto un carrubo, masticando tabacco, le bilance accanto e i camioncini un po’ più oltre sullo sterrato, col motore già acceso, pronti per andare in distilleria col prezioso carico.
Mi feci coraggio. Avanzai per prima e rovesciai tutta la mia tasca nel fossato. L’acqua stagnante si coprì di bianco; corolle leggere, trascinate dal vento, volarono sui rovi circostanti, sul muro di cinta, si posarono su di noi come riso sugli sposi e andarono a morire sul terreno polveroso della strada. Le altre donne seguirono il mio esempio. Nuvole bianche ci circondarono, gli uomini si misero le mani nei capelli, scappammo da ogni lato. Bestemmiando ci inseguirono, le cinture in mano come fruste.
Fu l’inizio della lotta.
Licia Tumminello
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