Per parecchio tempo una politica di irritante loquacità, per fortuna terminata, s’è premurata di ripeterci che la pandemia ci avrebbe resi migliori: cinismo della più bell’acqua, sia pur propinato in forma nobilmente sapienziale. Un po’ come confortare certe inumane sofferenze fisiche spiegando che il dolore del corpo ci purifica ed eleva. Sarà, ma vallo a dire agli interessati. Intanto, in attesa che le migliorie indotte chissà come da quest’immane disastro si decidano a palesarsi, siamo ancora qui a guardare a un precario futuro con l’ansia delle sue mille incognite. Non è un mistero che, in compagnia di altri colossi della speculazione mondiale, la Cina stessa, artefice dello sconquasso, stia già passando all’incasso delle nuove miserie prodotte nel vecchio continente e stia allungando le mani sui suoi tesori e tesoretti. Gran brutta sorte finire in balia dei cravattari. Ma proprio questo è il tipo di pensieri che la testa inevitabilmente macina girando nel centro storico di Cremona, plastica rappresentazione di una città in ginocchio e di un piccolo commercio che, pur con qualche isola felice e volonterose eccezioni individuali, alza le mani e si arrende. Ovunque: ‘vendesi’ ‘affittasi’ e così via. La memoria visiva cerca d’istinto quella certa gelateria, quel negozio di pelletteria, abbigliamento, casalinghi, giocattoli, che c’era e non c’è più. E’ un po’ come per le persone che improvvisamente ci lasciano: rimpiangi di non averne fissato con più cura l’immagine nel prezioso archivio della memoria.
Con quale volto il nostro centro storico uscirà dal tunnel? Bella domanda. Ma basta cambiare il punto di vista e la sconfortata domanda diventa il punto di svolta verso meno cupi orizzonti. In fondo questa pandemia un po’ come un terremoto o una guerra distrugge e lascia rovine. Dunque ci costringe a ricostruire. E il cosa e il come di questa ricostruzione sono pur sempre nelle nostre mani. Ovvio che non sarà una passeggiata: solo una robusta dose di coraggio individuale e collettivo ci consentirà di costruire qualcosa di qualitativamente superiore rispetto a quel che ci è stato sottratto a forza. Tradotto: scordiamoci di portarci dietro nel dopo pandemia l’idea di profitto storicamente sperimentata per anni in forma di rapacità predatoria che vuole tutto e subito, spremendo il massimo e concedendo il minimo in ogni situazione: dal canone di una locazione immobiliare, allo sfruttamento di un terreno, alla conduzione di un’impresa. Solo una radicale sforbiciata degli appetiti impropri, fruttuosi nell’immediato e distruttivi sul lungo periodo, sarà in grado di scatenare forme diffuse di vitale e intelligente creatività economica. E di traghettarci verso assetti produttivi e sociali meno precari.. Il che vale naturalmente anche per l’ambiente per secoli violato e rapinato alla stregua di una risorsa inesauribile. In questi giorni le acque del Po sono tornate azzurre. Speriamo di festeggiare come cremonesi altri analoghi traguardi. Chi ancora dubitava che nel terzo millennio etica e profitto economico non solo possano ma debbano coincidere è servito: non il moralismo dei predicatori ma il principio stesso di realtà con le sue inoppugnabili evidenze l’ha costretto a imparare la lezione. Dunque, rimbocchiamoci le maniche. Il tempo stringe. Un’economia piegata come la nostra potrebbe essere presto pronta a consegnare le chiavi dei suoi patrimoni immobiliari e commerciali al primo speculatore – magari emissario di mafie cinesi, slave o nigeriane oltre che indigene – che fa tintinnare un po’ di contante. Il centro storico rischia una gigantesca svendita a prezzo di saldo in grado di ridisegnare, con gli equilibri proprietari, l’intera fisionomia materiale e ideale di quel che fu il cuore pulsante di un’antica e gloriosa civiltà municipale. Un precedente fa riflettere. L’Europa ricomprò, con Draghi, il debito delle economie più deboli sottraendole alla voracità distruttiva della grande speculazione. Perché non immaginare qualcosa di simile per Cremona: creare un’agile struttura apposita che coinvolga Comune, istituti di credito, mecenatismo locale, categorie economico sociali, per attivare meccanismi fiscali, creditizi e fiduciari che consentano ai cremonesi di ricomprarsi e tenersi un patrimonio laboriosamente costruito nei secoli. Si potrebbe varare all’ombra del Torrazzo, anche in una logica di patto fra le generazioni, un esperimento di automedicazione sociale e ripopolamento commerciale, adeguatamente garantito e reso appetibile da condizioni fiscali che riconoscano e premino i comportamenti socialmente virtuosi. E’ ovvio infatti che vada incoraggiato e sostenuto chi è disposto all’avventura di ricostruire un commercio di vicinato con tipologie utili a ridar senso, merci a portata di mano e decoro estetico al vivere cittadino, tanto più in ragione di una popolazione che invecchia.
Sondiamo ogni potenzialità, a cominciare dal consistente mercato giovanile degli iscritti ai nostri poli universitari che con una card acquisti ben studiata e vincolata all’immatricolazione, potrebbero essere incentivati a comprare nel circuito cittadino piuttosto che on line o nella desolata baraccopoli dei centri commerciali extraurbani. Almeno proviamoci a lanciare il cuore oltre l’ostacolo! Quando, se non ora?
2 risposte
Continuo a seguire con grande interesse le riflessioni della prof.ssa Ada Ferrari che a me pare non siano molto distanti dal modo di immaginare il futuro per questa nostra città dell’associazione “ABC-La Rete”. Mi permetto però di ricordare la decisiva ed unica scelta per un domani ancora possibile, quella della sostenibilità sistemica nella produzione delle risorse. Cremona, ombelico della pianura padana che trae dal grande fiume Po gran parte della sua ricchezza, non può ignorare infatti le ormai annose ammonizioni della comunità scientifica sul livello raggiunto dal degrado ambientale in generale e le importanti responsabilità che ricadono sul settore agro-zootecnico. Un solo dato per essere capiti. Dagli allevamenti intensivi viene l’85% dell’ammoniaca nell’atmosfera della Lombardia che va, come gas “precursore”, a combinarsi con altre molecole generando molte delle polveri fini che respiriamo.
A proposito invece di ciò che questo settore anche attraverso il terreno scarica nei corsi d’acqua, si segnala il recente studio dell’Università di Hong Kong sull’inquietante avvelenamento dei fiumi con le relative emissioni dei gas serra e di quelli inquinanti dell’aria dovute alle scelte che impongono l’agricoltura e la zootecnia intensive. Le stesse che sono praticate nella verde terra padana.
Concordo pienamente, caro sig. Fiori, e aggiungo che la crisi accentuata dalla pandemia rischia di essere impugnata come ulteriore pretesto per relegare la questione ambientale a ruolo di ‘fisima’ dei soliti Verdi..