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Giornata mondiale Alzheimer, il racconto di Licia Tumminello

21 Settembre 2023

In occasione della Giornata mondiale della malattia d’Alzheimer, riproponiamo il racconto scritto da Licia Tumminello e pubblicato lo scorso anno.

L’orologio

Una strada stretta del centro storico. Sulla sinistra, un portone di ferro dorato. Suono; qualcuno mi riconosce. Entro. Evito l’ascensore tipo ospedale – grande abbastanza per una lettiga o per il carrello col cibo – e scelgo le scale, al di là della porta tagliafuoco. Secondo piano. Digito il codice di accesso: sei cifre da ricordare possono essere un’inezia, un esercizio mentale, o un muro invalicabile. La porta del reparto degenti Alzheimer si chiude alle mie spalle. Fuori lascio i problemi quotidiani.Eccola, la mia mamma. Le stringo le mani, la bacio. Mi rivolge un sorriso educato, di quelli che si riservano alla commessa della salumeria o all’autista che si è fermato per farti attraversare. Non ci farò mai l’abitudine. Avrei preferito un rimprovero per il mio ritardo ma cerco di non badarci e m’impongo di pensare unicamente a lei. Spingo la carrozzina verso la sala da pranzo, ampia, rettangolare, luminosa, con tavoli bianchi e poche sedie mal disposte. Contro la parete di sinistra un armadio, un lavandino e la macchinetta del caffè; sul lato opposto un televisore sempre acceso, e un orologio. Di fronte, una grande vetrata affaccia sul giardino: i pini si stagliano alti e orgogliosi contro il cielo, oggi azzurro come la polvere che la mamma metteva nel bucato per esaltarne il candore.

Da quasi un anno vengo qui, quotidianamente. Il posto è tranquillo, ben tenuto e ha un nome altisonante ma, guardandomi attorno, ho sempre la stessa impressione del primo giorno: è una prigione per ospiti speciali. Un’oasi di parcheggio, in attesa che ciascuno raggiunga il proprio capolinea. Quell’orologio – che come una calamita attira il mio sguardo in continuazione – sembra indicare il tempo mancante all’appuntamento.

Ci avviciniamo al nostro posto, un tavolo vicino alla finestra, perché alla mamma piace guardare le fronde degli alberi che si muovono quando c’è vento. A volte sembra seguire col movimento del capo anche qualche uccello, che forse è solo nella sua immaginazione. Le siedo accanto, impacciata, fuori luogo, e guardo ancora l’orologio. È rotondo, bianco, con la cornice d’acciaio, i numeri grandi e le lancette, nera quella delle ore, rossa quella dei minuti. È nuovo. Prima ce n’era un altro con i numeri romani: aveva un sapore antico, la cornice di legno e un fondo color madreperla; s’intonava con la tinta giallo spento delle pareti e mi piaceva di più. Questo disco è freddo, mi mette tristezza. Sa di sala d’aspetto, di ufficio, di fabbrica dove timbri il cartellino. Però, a differenza del precedente, non disturba con l’incessante “zac zac zac zac” a scandire ogni secondo. Ore, minuti e secondi si avvicendano esatti e puntuali come ovunque nel mondo, ma chi alza gli occhi su quest’orologio li percepisce in modo del tutto soggettivo. Certi ospiti – quelli ancora in grado di rendersene conto  riconoscono la domenica dalla presenza del dolce a fine pasto, e il pomeriggio dalla visita del parente; altri, forse, distinguono la mattina perché ci sono le abluzioni o il bagno, o le inservienti che lavano i pavimenti e rifanno i letti, ma sapere che siano le undici o mezzogiorno, che sia lunedì o giovedì, non credo importi a nessuno e non cambia l’esistenza di chi, da qui, non uscirà più con le proprie gambe. Tutt’al più sulla sedia a rotelle, per una passeggiata in giardino. Io e la mamma ci andiamo spesso, in giardino, se solo il clima lo permette. Facciamo un lungo giro per i viali e poi ci fermiamo vicino ai cespugli di lavanda. Mi porto sempre un libro, ma non leggo quasi mai. Piuttosto penso, cerco parole per lei senza trovarle e la osservo, mentre segue il volo di mosche e calabroni o giace appisolata, con i muscoli del viso finalmente rilassati. Lo scorso anno ad agosto, per il suo compleanno, l’ho portata fuori. Avevo prenotato un tavolo al ristorante che dista poche centinaia di metri. Per strada continuava a mettere e togliere gli occhiali da sole e sembrava divertita. Ci siamo anche fatti i selfie. I ravioli li ha mangiati tutti e ha apprezzato la torta, anche se l’indomani non se ne ricordava già più, e non capiva chi fossero quelle due persone nelle foto che facevo scorrere, con gesto nervoso, davanti ai suoi occhi senza espressione. La vista di quest’orologio mi porta pensieri amari, oggi più che mai perché la mamma non mi ascolta. Non mi guarda neanche, come se non ci fossi. Oggi è un continuo scrutare fuori dalla finestra e poi, freneticamente, tutt’attorno; e se, nel roteare delle pupille, i suoi occhi spenti incrociano i miei, non si fermano e mi viene da piangere. In questi minuti, lenti come ore, vorrei essere già fuori.

Non sono una brava figliola. Le prendo la mano, vorrei che sentisse il mio calore, che si voltasse verso di me. Vorrei trovare – ritrovare! – un argomento di conversazione. Le accarezzo i capelli: sono ancora tanti, bianchissimi. L’ho pettinata, prima di venire in salone, come faceva lei con me, quand’ero bambina.

«Visto, visto come sei bella?» le ho detto un paio di volte. Era come se non sentisse, non ho trovato parole migliori e mi sono morsa le labbra. Ho continuato a pettinarla a lungo, in silenzio, pervasa di malinconia e ricordi. Le ho messo il pettinino di tartaruga, a fermare il ciuffo che le cade sugli occhi. Adesso siamo qui, in attesa del pranzo. La osservo, mi avvilisco e guardo l’orologio. Invidio gli altri accompagnatori: hanno tante espressioni, tanti sorrisi, tante cose da raccontare e non si fanno scoraggiare né dal silenzio né dallo sguardo perso, meno che mai dalla minestra che cola lungo il mento nonostante l’attenzione che ci metti per evitarlo. A volte scambio con loro qualche frase; quotidianamente ci ritroviamo, ma il tempo sospeso che si vive in questo luogo, la sofferenza che trasuda dalle pareti, sembro avvertirli solo io. Non riesco a fingere, non so cosa dire e soffro: cosa mi manca? La fede? La pazienza? Forse, semplicemente, non accetto la realtà, non so cogliere i momenti belli del presente e gioire nel ricordo di quelli passati. Mi distruggo. Il pensiero che a momenti porteranno la minestra e dovrò imboccare la mamma, mi mette ansia. A me tremano le mani, m’innervosisco e sono un disastro, altro che essere d’aiuto. Non riesco a evitare che lo sguardo vada ancora all’orologio. La lancetta dei minuti sembra ferma. Mi sforzo per non guardarla ma il tempo pare non scorrere mai e sono di nuovo lì, con gli occhi sul quadrante, a cercare il movimento impercettibile, a tentare di spingere con la forza del pensiero quella lancetta che non si muove. La mia mano è su quella della mamma, ma la mente è altrove. A quando era ancora lei: prendevamo le carte per una partita a scopa, o guardavamo gli album delle fotografie, poi facevamo la passeggiata. Prima di uscire insistevo affinché si facesse bella. «Metti il foulard, che ti sta tanto bene, e il rossetto. E anche la collana di perle che ti ha regalato il papà». «Ma non vale la pena!».
«Invece sì. Dai, facciamo le “sciure”».
E ridevamo insieme.
La osservo: bella lo è ancora. Le accarezzo la guancia: la pelle è sottile, liscia, morbidissima come quella di un neonato. Lei si volta, le sorrido, ma il suo sguardo guizza, non si ferma, ed è già altrove.
La nostalgia mi chiude la gola.
Tornavamo a casa, si sedeva sul letto, le toglievo le scarpe, le massaggiavo i piedi e indossava le pantofole. Quindi il consueto, amato rituale:
«Lo vuoi il caffè?» mi chiedeva.
«Io sì. Tu, lo vuoi?».
«Eh, magari».
«Allora lo faccio».
«No, ci penso io».
Ci spostavamo in cucina e dovevo stare seduta: voleva fare tutto lei.
Poi, un brutto giorno, aspettando che il caffè salisse, ha chiesto di mio fratello: «Quello che non viene mai».
«Di chi parli? Di Antonio, o di Stefano?».
«No, dell’altro. Quello partito».
«Ma che stai dicendo, mamma?».
«Sì, non viene mai a trovarmi. Glielo devi dire, di venire pure lui».
Ed io ti ho preso in giro. E tu ti sei arrabbiata. E non ricordavi dove fosse conservata la zuccheriera. Ed io, scema, non capivo.

Ecco, ecco il passaggio del minuto. No, non è un’illusione. Ho visto il movimento della lancetta. Allora funziona, meno male. Le inservienti si aggirano con i vassoi e le scodelle fumanti. Il brusio di fondo si affievolisce. La mamma distoglie gli occhi dalla finestra, si toglie il pettinino; cerco di rimetterglielo ma lei, brusca, allontana la mia mano. Ci rimango male: così, col ciuffo sulla fronte, ha un aspetto trasandato. Segue con gli occhi i movimenti delle inservienti. Una di loro nota che non ha ancora il tovagliolo legato al collo, e provvede. Non che me ne sia dimenticata, solo che mi mette troppa malinconia: la mamma, il tovagliolo se lo poggiava sulle gambe, e prima di sedere a tavola toglieva il grembiule da cucina e in bagno si ravviava i capelli. Ci teneva tanto a essere sempre in ordine. Allungo una mano per prendere quella sua, abbandonata sul bracciolo della sedia a rotelle.
Si volta verso di me. «Te ne stai andando?».
L’occhio è più sveglio. Sembra che mi abbia riconosciuto.
«No, mamma, resto qui».
Sì, sono qui e non me ne vado, resto con te, penso. E improvvisamente mi accorgo del sole, sento il profumo della minestra, un calore mi riscalda le guance.
«Ora mangiamo, vero?».
Le sorrido, annuisco, le stampo un bacio sulla fronte e guardo l’orologio.
Adesso mi sento forte e vorrei fermare il tempo per mantenere il più a lungo possibile
quest’attimo di consapevolezza.
Perché tutto è più facile, se sai che ora è.

 

Licia Tumminello

 

Una risposta

  1. Anche quest’anno il racconto lascia un segno nell’anima. E fa pensare e ripensare, ricordare e commuovere. I genitori che non ci sono più. Averli visti avanzare nell’età e nella debolezza è un’esperienza che si stampa nel cuore. E ripensi al saluto con la mano dalla finestra, alla frase mai pronunciata prima per pudore, per mancanza di abitudine ad esprimere emozioni e sentimenti, e che non ti aspettavi: ” avevo voglia di vederti” .

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