Alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, il liceo classico ”Daniele Manin” di Cremona aveva fama, per gli studenti e soprattutto per i genitori, di essere una scuola molto impegnativa e difficile soprattutto a causa del greco e del latino, lingue “dolorose” anche da morte, per la difficoltà delle versioni in classe. Inoltre, lo studio della filosofia, parola allora quasi sconosciuta nel lessico popolare, rafforzava la convinzione delle difficoltà della scuola di via Boldori in cui, sempre nell’immaginario collettivo, insegnavano professori molto esigenti e fin troppo severi. Non sempre tuttavia la fama corrisponde alla realtà. Non tanto per le materie da studiare per ottenere la maturità quanto per la presunta severità dei professori.
Insegnante di filosofia, nella sezione A, era all’epoca il professor Giuseppe Berti, che tenne la cattedra al Manin dal 1938 al 1970. Al suono della campanella che dava inizio all’ora di filosofia, ogni venerdì alle 10,35 saliva lentamente i tre gradini per entrare in terza A mentre il chiasso, che sempre contrassegnava i dieci minuti dell’intervallo, continuava nonostante l’ingresso del professore. Il baccano non diminuiva neppure quando il professor Berti saliva sulla cattedra, aprendo il registro. In quel momento il colpo d’occhio prendeva d’infilata due alunni che si sfidavano a “braccio di ferro” attorniati da compagni vocianti, altri chini sul quaderno delle versioni di latino stavano copiando il compito per l’ora successiva, mentre uno studente stava confidando i suoi problemi di adolescente (sempre inventati per compiacere l’insegnante) parlandogli sottovoce. Il professore nel frattempo si era seduto assumendo la sua posizione preferita. Appoggiava sulla cattedra il braccio sinistro, alzando l’avambraccio a formare un angolo acuto e sulla mano aperta appoggiava la fronte, con lo sguardo fisso nel vuoto. Era quella la posizione che assumeva per ascoltare le parole che sottovoce pronunciava lo studente, incurante di ciò che avveniva nell’aula. Sulla cattedra intanto un alunno, dal fisico atletico e con doti da ginnasta, si divertiva a fare la verticale e restava immobile a testa in giù a pochi centimetri dalla faccia del professore, il quale continuava ad ascoltare imperterrito i problemi che gli venivano confidati nei “compitini”, brevi relazioni riservate in cui si elencavano problematiche personali, quasi sempre inventate, per poter dare (diceva) un aiuto a chi era in difficoltà e al quale, come incoraggiamento, senza neppure interrogarlo, dava la sufficienza in pagella. Contemporaneamente, nell’interno dell’aula si formavano crocchi di tre o quattro alunni in piedi lungo i quartieri che intavolavano discussioni su una partita di calcio o su una cantante. La filosofia poteva aspettare.
Verso le 11 il professore scendeva dal predellino, si appoggiava alla cattedra con la schiena e incominciava a spiegare un nuovo filosofo. Alla prima domanda di chiarimento, che sempre gli veniva rivolta dallo stesso studente (che non brillava per intelligenza), l’argomento scivolava su altri temi e la discussione finiva sempre con una battuta risolutiva del professore, tra gli sberleffi al compagno da parte di tutta la scolaresca. A quel punto, per ottenere un po’ di silenzio impiegava un intero quarto d’ora.
Le cause per interrompere la lezione erano le più disparate. Una volta la lezione venne fermata da un piccione che era entrato nell’aula dalla finestra aperta. Quando fu catturato, il professor Berti interruppe la spiegazione e se lo fece consegnare chiudendolo nel primo cassetto, sempre vuoto, della cattedra. Stette in silenzio per alcuni minuti. Poi, con aria severa si rivolse alla classe e chiese chi si volesse occupare del volatile. Dal primo banco del corridoio centrale si udì: “Lo porto a casa io e lo metto nella voliera”. Il piccione venne consegnato, il professor Berti, sollevato, riacquistò un’espressione distesa e il chiasso riesplose.
Sperangelo Bandera
2 risposte
La mia mamma da ragazza aveva lavorato in segreteria al Manin, mentre i suoi coetanei erano in classe. Capitava spesso che ricordasse i tempi del liceo nei quali era stata bene ed era stata apprezzata dalla Segretaria che le si era affezionata. Purtroppo il suo incarico non proseguì, ma i nomi di alcuni docenti, dei Presidi, dei suoi colleghi di segreteria erano ricorrenti nei suoi racconti. Il professor Berti era spesso ricordato.
Meraviglioso racconto di un tempo in cui anche le cose disordinate avevano un ordine che oggi è inevitabile definire magico. E quel piccione è parte della lezione.
Il Manin è stato anche il mio Manin , qualche anno dopo.