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Memorie di un custode

29 Settembre 2024

Per il secondo anno consecutivo, un racconto del giornalista cremonese Roberto Fiorentini entra nei finalisti dal Concorso Letterario ‘Argentario 2024 &  Premio Caravaggio VIII Edizione, organizzato dall’Associazione Culturale Metamorphosis di Porto Ercole e con il patrocinio del Comune Monte Argentario.

‘Memorie di un custode’ è la vicenda romantica del custode di una grande torre che, all’ultimo giorno di lavoro, ritrova un antico amore. Una passione cancellata dalla scelta di lei di rimanere con il suo uomo che però non ama più. Sullo sfondo le anime di coloro che, proprio per amore, avevano perso la vita lanciandosi da quella meravigliosa opera d’architettura.

 

Bagliori di sole settembrino lampeggiavano sulla pianura. Le distese di campi erano pronte a scivolare nel riposo invernale. I tetti cittadini rimandavano, in cielo, il chiarore del crepuscolo.  Gian Battista osservava, inquieto, quell’idillio a centododici metri d’altezza. Tant’è elevata la torre che per trentacinque anni aveva gelosamente custodito. Era il suo penultimo giorno di lavoro. In oltre tre decenni era salito e disceso, due volte al giorno, per i cinquecento gradini di quel potente mostro murario: figlio legittimo degli uomini dell’Evo di mezzo. Due viaggi cadenzati dall’ ‘Angelus’ di mezzogiorno e dall’ ‘Ave Maria’ della sera. Nessuno doveva restare all’interno del monumento nelle ore di chiusura. Imboccò la scaletta a chiocciola e guardò, pensoso, verso nord. L’aria pulita, all’orizzonte, svelava le cime di montagne lontane. Le vette, oscure sagome, erano ricamate da orlature di bianco. Lassù era già arrivato uno spruzzo di nevischio invernale. Un vento leggero gli scompigliava i capelli grigi. Si appoggiò alla ringhiera. Passo dopo passo raggiunse il pianoro della merlatura. Ripensò a quel primo giorno che era arrivato in quel luogo magico. Erano stati i preti che lo avevano salvato da una gioventù complicata. L’offerta non era stata meravigliosa: lavorare come custode della torre; alloggio compreso. La casa: due stanze ricavate da una sacrestia a cui la torre era unita da muri perpendicolari e da un cortile interno.  Camera da letto e cucina al primo piano. Sotto la guardiania.

Qui Giovan Battista passava le ore della giornata. Doveva accogliere i turisti e controllare che le visite si svolgessero in sicurezza. Viveva in totale solitudine. Occupava un isolotto nel mezzo di un mare di abitazioni civili. Guardando la città da quei merli possenti, ripensò di non aver mai usufruito di un solo giorno di ferie. Del resto, a che gli sarebbe servito. Non aveva alcuno con cui potersi godere il tempo libero. Tra le clausole imposte nel contratto, c’era quella di vivere da solo in quella casa così legata alla chiesa. Nessun parente. Niente donne, gli avevano fatto capire. Lui si era adeguato, controvoglia. In quel momento non aveva alternative: prendere o lasciare. Poi, con il tempo, se ne era fatto una ragione. Era stato comunque un terribile peso che gli guastava l’anima, ogni giorno. Voleva pensarci il meno possibile.

Una speranza, in cuor suo, l’aveva sempre nutrita. La coltivava amorevolmente. Nei primi anni di lavoro, alcuni archeologi avevano effettuato scavi nel cortile interno della torre. Portarono alla luce antiche sepolture. Poveri resti appartenuti a donne che si erano suicidate per amore. Erano salite fino agli ultimi piani, lasciandosi cadere nel vuoto. Cronache del tempo e leggende raccontavano che c’era chi lo aveva fatto per una passione non corrisposta. Chi per evitare di congiungersi, per la vita, con uomini non amati. Chi per chiudere, il più presto possibile, un’esistenza senza senso. Amore. Passione. Follia. Disperazione. Un turbinio di sensazioni sepolto in quei giacigli, scavati da mani pietose.

Fosse sterrate nel punto in cui il cadavere aveva toccato la cruda terra. “Venga Gian Battista. Le mostro un caso particolare”, gli aveva detto Laura. Giovane archeologa dal fascino terribilmente magnetico. “Guardi qui sotto. Sono i resti di una donna. Si chiamava Bianca Maria. Qualcuno ha inciso il suo nome sulla pietra. L’abbiamo fatta esaminare. Morì per una caduta da una decina di metri. Il corpo non si è infatti sfracellato. Probabilmente si è lanciata proprio dalla prima finestra della torre”. Il custode si avvicinò con circospezione. Non che i cadaveri gli provocassero timore. Per i morti, nutriva però un rispetto tutto suo. “Dice che si è suicidata per amore?”, le chiese con evidente curiosità. “Probabile. Molto probabile, Gian Battista. A quell’epoca i morti erano sepolti nelle chiese. Questi, invece, furono lasciati al di fuori del perimetro sacro. Usanza riservata a chi si toglieva la vita: morendo in peccato mortale, tale era considerato il suicidio all’epoca”. “Chissà”, proseguì lei “chi era l’uomo di cui era così tremendamente innamorata per sacrificargli la vita. Aveva, più o meno, una ventina d’anni. Voglio immaginare che sia stato un amore disperato. Pieno di passione, sensualità, volontà di vivere, e, perché no, di desiderio”. Gian Battista tolse lo sguardo da quelle povere ossa. Guardò negli occhi Laura. Brillavano di luce intensa. Di una forza incommensurabile. Di una voluttà fuori dal comune. Fu penetrato, ferocemente, nel corpo e nell’anima.  Dopo quell’incontro, per giorni, si ritrovarono nelle pause di lavoro.

Lei gli raccontava dei progressi dei cantieri. Delle scoperte nelle tombe. Degli articoli che avrebbe scritto al termine di quegli scavi. Lui la ascoltava sempre più ammirato, sempre più innamorato. Un pomeriggio Laura gli annunciò che il suo impegno era arrivato al termine. Per giorni non si diede pace. Era stata una luce in una notte oscura. Faticava nel salire e scendere quegli infiniti gradini. Tutto gli sembrava inutile. Senza senso. Votato al nulla. Gli diede l’addio in un tardo pomeriggio infuocato. I raggi del sole al tramonto accendevano quei mattoni: sembravano appena usciti da una fornace incandescente. “Vado”, gli disse. “Ricordati sempre che ti ho voluto bene”. Lo accarezzò dolcemente, baciandolo teneramente su una guancia, ruvida di barba incolta.

Gian Battista, quella notte, restò alla finestra della sua camera. Fissò continuamene il punto dove Laura aveva scoperto Bianca Maria.  Decise che si sarebbe preso cura per sempre, di quella tomba. Ogni giorno si soffermò su quella lastra a pregare. Chiedeva all’anima di quella giovane sconosciuta di dargli un amore che mai aveva avuto. Erano visite brevi. Qualche minuto. Una preghiera di suffragio. La richiesta di ‘grazia’ per un sentimento che gli scoppiava nel cuore. La mattina del sabato, prima dell’apertura della torre, correva al mercato. Acquistava una calla,  la più bianca. La appoggiava, con fede, su quel sarcofago che custodiva una martire dell’amore.

In quella penultima serata di lavoro scese lento i gradini. Si fermò davanti alle finestre. Osservò in silenzio il panorama. Gli ritornavano alla mente le immagini di uomini e di donne che, in tutti quegli anni, aveva visto avvicendarsi tra quelle mura. Ne sentiva le voci, le grida di gioia per aver raggiunto il punto più alto. Le promesse di ritornare. Le dotte spiegazioni di chi aveva studiato, prima di apprestarsi alla salita. I programmi per estati incipienti o per autunni ricchi di nuove scoperte. I baci degli innamorati alla piena luce del giorno o nella penombra dei mesi autunnali. Rivedeva i teneri abbracci tra famiglie felici che passavano il tempo dentro il ventre di quella poderosa balena fatta di mattoni e di calce. Gli era difficile lasciare tutto questo. Sapeva che il giorno dopo un piccolo furgone avrebbe portato lui e le sue povere cose in una residenza di pensionati ai bordi della città, al confine di quella campagna ammirata sempre dall’alto. Temeva che in quelle nuove stanze si sarebbe ammalato d’inguaribile malinconia. Poco tempo e sarebbe passato in fretta ad altra vita. Cercò conforto nei volti di quelle statue di santi che, ogni giorno, gli avevano ricordato un possibile aldilà.

Arrivò nel cortiletto che era già buio. Aveva impiegato il doppio del tempo per lasciare le scale. La biglietteria del primo piano era invasa di scatoloni per il trasloco. Guardò attonito quella confusione; difficile farsene una ragione. Si affacciò al cancello chiuso. La piazza era animata da gruppi di ragazzi chiassosi e irriverenti. Qualche anima pia recitava preghiere davanti al portone serrato della chiesa. Solitari trafiggevano, lentamente, la notte nascente; accompagnavano il cane all’ultima sgambata. La luna appariva alta sulle vecchie prigioni che, per secoli, avevano richiuso balordi di ogni tipo. Gli sembrò di sentire le loro grida disperate alla vigilia della condanna a morte.

Si gettò nella branda ridotta all’essenziale. Prima di chiudere gli occhi, pensò al giaciglio eterno di Bianca Maria. Aveva così tanto sperato di trovare, con il suo aiuto, l’amore da sempre desiderato. Invece nulla. Forse anche lei si era dimenticata di lui. Lo sconforto lo invase come un morbo inguaribile. Per cacciare quelle terribili ombre, si alzò di scatto. Si mise alla finestra recitando preghiere a voce sommessa. Le luci dell’alba lo svegliarono accoccolato su un cartone su cui si era sdraiato sfinito; preda di un’incommensurabile stanchezza d’anima e corpo.

Si riassettò alla bell’e meglio. I facchini del trasloco già chiacchieravano animatamente fuori dalla torre. Con un dolore che pesava come un macigno, aprì il cancello d’ingresso. Qualche turista, fin troppo mattiniero, lo stava aspettando. Cominciò quel suo ultimo giorno. Osservava gli operai trasportare pacchi e pacchetti e lanciarli nel furgonato. Un’ora prima della chiusura del mezzogiorno, arrivò una nutrita comitiva. Non aveva alcuna voglia di occuparsi di quella gente. Staccò i biglietti in fretta. Si ritrasse, al più presto in quelle stanze oscure e ormai vuote; suo intimo riparo per tutti quei decenni. Si assopì su uno sgabello che faceva parte dell’arredamento della chiesa.

Solo il primo rintocco dell’Angelus di mezzogiorno lo risvegliò. Sapeva che doveva scalare la torre. Le gambe gli pesavano sempre più ad ogni gradino che affrontava. La testa rimbombava dentro i camminamenti in penombra. Gli occhi bruciavano terribilmente quando incocciava le folate di vento che spazzavano i piani. Arrivò sulla cima distrutto. Pensò di non avere controllato la stanza dell’orologio. Prima di riaffrontare la discesa, riprese fiato. Era l’ultima volta che avrebbe osservato quel panorama alla piena luce del giorno. Si fece coraggio. Lo attendevano quegli incredibili ingranaggi meccanici padroni del tempo terreno. Aprì la porticina. Gli apparve la sagoma di una donna. Era girata di schiena. Il volto osservava la grande ruota dentata sempre in movimento. Un cappellino grigio le copriva la testa.

“Signora. Signora: non può restare qui. La torre chiude. Venga. Deve uscire”, le disse con voce stanca. Quel corpo però non si mosse; era come risucchiato dal monotono ticchettio delle aste ferrate. “Per favore signora: deve uscire. Sto chiudendo la torre. I visitatori non possono restare qui. Venga. Scenda con me”, le ripeté con voce ancora più logorata. Le si avvicinò, con passo calmo. Quando le fu a pochi centimetri. Lei si voltò di scatto. Rimase folgorato.

“Laura”, gridò. “Sei tu! Sei tornata da me. Non ti avevo visto salire”. Le sue parole si accavallavano. Si intrecciavano come quei mille pensieri che lo avevano accompagnato per tutti quei lunghissimi anni passati senza di lei.  La donna lo guardava. Aspettava che la sorpresa passasse per poter parlare. Raccontare. Gli sorrideva amabilmente come quel giorno che si erano salutati sulla soglia del cancello di ferro. “Dimmi, come stai? Cos’hai fatto nella vita? Come mai sei tornata? Sono felicissimo! Sei di nuovo qui! Hai qualcosa da dirmi? Sentivi la nostalgia di questo posto. Dimmi la verità! Parla ti prego. Non lasciarmi in questo stato. Oggi è il mio ultimo giorno di lavoro, mi hai trovato per caso. Vieni così mi racconti”.

Uscirono da quella camera dove il tempo consuma se stesso fino all’eternità. Lei lo prese dolcemente per mano, come negli anni passati. Come quando venivano quassù a guardare insieme il giorno morire dentro i campi e nelle acque del fiume. I suoi occhi luccicavano, ma restò in silenzio, finché non lasciarono le scale. Appena furono nella sua stanza, Laura prese dalla borsa una sigaretta. Partorì una nuvola di fumo. Le parole le uscirono in mezzo ai bianchi sbuffi del tabacco. “Gian Battista, sono venuta fin qui per confessarti un segreto. Solo questo. Non chiedere nient’altro di me e della mia vita privata. Ti prego! Renderesti ancora più difficile questo momento. Sono venuta a dirti che ti amo. Un sentimento che ho provato in quei giorni in cui ho lavorato qui. E che è proseguito cristallino per il resto degli anni trascorsi per le strade della vita. Te lo dovevo. Ma lo dovevo soprattutto a me stessa. A quanto sono stata fino a questo momento. Nasconderlo è stato un peso che non aveva più senso sopportare. Inutile tacerlo, soprattutto ora. Ora che stiamo invecchiando. Le nostre vite sono oramai avviate alla fine. La verità deve splendere al sole. Dobbiamo prepararci a vivere quest’ultimo tratto di strada, sereni e felici. In pace, se non con il mondo, almeno con la nostra coscienza e con il nostro spirito. Ti ho voluto incontrare per questo”. Gettò il mozzicone a terra. Si strinse il volto tra le mani. Gian Battista l’aveva ascoltata con il cuore in tempesta. La felicità aveva pian piano lasciato spazio alla paura. Al timore di riperdere questo essere che amava, da sempre.

Passarono il pomeriggio insieme, seduti sui primi gradini della gran torre. Lui cercò, in ogni modo, di prospettarle un futuro insieme. Le offrì un amore scevro da amplessi carnali. Un affetto eterno. Dolce. Senza limiti. Avrebbe dato la vita per trattenere quella creatura che gli provocava indescrivibili vibrazioni. Laura taceva. Abbozzava, ogni tanto, un sorriso leggero e distratto. Osservava quell’uomo con uno sguardo vacuo; come se fosse già lontana. Ritornata in quella sconosciuta dimensione da cui era arrivata e che aveva dimenticato per quella sola giornata. I suoi fantasmi la richiamavano in altri luoghi. Le chiedevano di tornare a dedicarsi ad altri affetti, ad altri amori, ad altre grotte dell’anima.

L’ ‘Ave Maria’ della sera risuonò. Per Gian Battista era arrivato il tempo dell’ultima salita. Guardò Laura che accarezzava le lastre di marmo che tanto aveva studiato. Percorse i mille gradini con una forza che, da anni, più non sentiva. Era sconvolto dal presentimento che, al suo ritorno, si sarebbe trovato, di nuovo, solo. Fu così. Laura se n’era andata. Non ebbe la forza di cercarla nella piazza, affollata solo di ombre.

Accostò il cancello di ferro battuto. Guardò il cielo, già pieno di buio. Sentì tiepide gocce di pioggia autunnale bagnargli il viso. Si mischiarono alle sue calde lacrime. Tutto sfocava attorno a lui. Cristi inchiodati alle croci. Madonne severe. Santi contriti. Martiri sfolgoranti. Sacri animali paradisiaci. Eroi immortali. Figure geometriche ricamate. Intrecciate. Infinite. Sfuggenti.

Appoggiando la mano al muro della torre, percorse una decina di passi. Barcollò verso il cortile interno. Il mondo sembrò sprofondare dentro quei mattoni custoditi con la sua stessa vita. Lo trovarono all’alba. Seduto sulla lastra di Bianca Maria. Le gambe incrociate. Il dorso riverso in avanti. Il capo chino sul petto.

Sul marmo: l’ultima calla, appassita.

 

Roberto Fiorentini

 

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