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La maternità delle cose, delle idee

10 Gennaio 2025

Tutti la chiamavano Maria, ma il suo nome era Marilinda, di cognome da nubile faceva Rossi, un nome comune, banale. Aveva scelto di farsi chiamare con il cognome del marito. Nel suo piccolo aveva un nome d’arte Maria Ferri. Un nome altrettanto spicciolo, facile, non esotico. Ma il suo amore per il marito e per la sua famiglia era tutto. Era poi orgogliosa di ciò che aveva costruito dal nulla. La sua sartoria era un fiore all’occhiello della città e nelle sue mani c’era un talento potente, vibrante, non scontato, come il suo piccolo, grande nome. Dio, che poi siamo noi, mettendo a fattor comune le nostre anime, ci chiama per nome, mai per cognome. Ecco che lei era Maria. Maria e basta. O, meglio. la signora Maria. 

Un preambolo lungo, per una divina. Dal suo atelier sono usciti abiti da sposa e da cerimonia memorabili. Collaborava con una modista, con il calzolaio per le scarpe, realizzate nella stessa stoffa dell’abito. L’artigianato artistico creava frutti meravigliosi. Lei sapeva creare collaborazioni vincenti. Ma il suo grembo era sterile. 

Era una bella donna, occhi vispi azzurrissimi, labbra carnose, era eccentrica e molto curata, visitava il parrucchiere ogni sabato mattina. Negli anni ’70 si usavano le parrucche. Aveva un toupet biondo grano come i suoi capelli, per infoltire l’apice della testa. Era un’acconciatura molto in voga, sembrava Virna Lisi, lo portava proprio come un’attrice. Quando voleva indossare il capello corto, indossava una parrucca bionda e riccia, stile Minnie Minoprio, una soubrette in voga quegli anni. Maria era sempre sulla cresta dell’onda. Era glamour, si direbbe oggi. Sapeva anche dire la sua opinione. Era sempre perfetta. Memorabili i suoi comizi in sartoria: “Io voterò per il divorzio, io non lascerei mai mio marito, non ne ho motivo, io mi sento una regina, ma se una donna soffre dentro una relazione sbagliata deve avere la possibilità di scegliere la sua libertà”.  Non aveva letto Voltaire: “Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu possa esprimerla”. In compenso aveva letto tutta l’Enciclopedia della donna. Un must per quell’epoca. 20 volumi di pura saggezza, presi a rate negli anni ’60, con i primi lavori sartoriali

Ha vestito tutte le sue amiche per gli eventi più importanti della loro vita. A vent’anni teneva in mano l’ago come un microfono con il quale espandeva la sua voce di amore e bellezza. Qualche anno dopo si sarebbe espressa, con la stessa ispirazione per l’aborto. “Io non abortirei mai – diceva con dolore, con la voce colma di desiderio per un figlio mai nato – ma io non sono nessuno per impedirti di farlo in sicurezza, se proprio tu lo vuoi”. Era una donna molto severa con sé stessa, aveva rigidi valori morali, ma era molto liberale con le sue clienti. Raccoglieva le loro confidenze, ascoltava, raramente esprimeva giudizi, era un argine sapientemente architettato, attutiva i colpi, regalava empatia. Le piaceva molto questo ruolo. Era parte del servizio, il suo valore aggiunto.

Lei e il marito erano una gran bella coppia, lei bionda, lui moro, snello e sexy. Formavano un connubio incredibile. Franco Ferri aveva un fascino anticipatorio. Non assomigliava ai divi del suo tempo, piuttosto ai divi del futuro. Un Antonio Banderas ante litteram. Lui la portava alle terme una volta all’anno in primavera, al mare sulla riviera romagnola in estate e quando la vedeva giù di tono partivano sul maggiolone per fare una gita al lago. Facevano una passeggiata a Sirmione, mangiavano qualcosa in giro, lo spiedo bresciano, un calice di vino, un dessert, si abbracciavano e tornavano a casa felici, con la nostalgia nel cuore, mai espressa e sviluppata, per quel figlio che proprio non voleva arrivare. 

Un giorno squilla il campanello. Vivevano ancora nel condominio rosso di prima periferia, uno di un gruppo di caseggiati colorati di edilizia popolare, costruiti per gli operai di un noto salumificio, solo dopo due anni si sarebbero trasferiti nel centro città, Maria si affaccia sul balcone e vede una bambina, piccina, un cespuglio di capelli mogano, tutti arruffati: avrà avuto 11 anni. Incarica il marito di accogliere la zingarella, così era apparsa al suo sguardo, di darle cento lire di elemosina e di salutarla. Franco scende, ascolta un po’ trafelato la ragazzina: un mucchietto di ossa, gambe corte e storte, gonnellina corta e smunta, chiedeva di poter lavorare con la signora Maria. 

Franco la invita a salire. Fra Maria e la Tizzi scatta qualcosa. Maria la terrà con sé fino alla morte. Tizzi ci sarà sempre. Una figlia che è arrivata come un dono, in un momento in cui Maria aveva davvero bisogno di una mano. La sua sartoria si stava espandendo a macchia d’olio. La sua non è stata carità, anche se cento lire non erano poche: le ha regalato un sogno per la vita. Tizzi ha spiegato che non era adatta per la fabbrica. Non si sono mai più lasciate. Tizzi ha colmato il bisogno di maternità di Maria, un bisogno di generare creativo: Orfana della mamma, è diventata la sua ombra. Era servizievole, talentuosa, umile, fine. Si sono compenetrate. Tanto Maria era espansiva, ariosa, colorata, avvolgente e femminile, quanto Tizzi era introversa, riservata, abilissima nella manualità fine, chic, dispetto di quei capelli così ribelli. A vederla, non le avresti dato nemmeno cento lire. A parlare in quel primo istante dell’incontro è stata la sua delicatezza. Era terrorizzata di finire in catena di montaggio. 

Un vestito non è mai il travestimento di una forma, è lo spunto per rivelare un’anima.

Non lo sapevano, non lo hanno mai saputo, ma questo era il loro motto. 

Si sono applicate in modo estenuante per perseguire questo piano occulto. A volte vestivano donne di 130 chili con la stessa grazia con cui vestivano fisici da modella. Dentro quei sottanoni o mini gonne Mary Quant che fossero c’era sempre un pezzo del loro cuore.   

La loro creatività ha colmato il senso di vuoto, di morte e dolore che le asfissiavano. Ha dipinto con i colori un mondo grigio e senza vita, trasformando in amore incondizionato una creatività potente: una maternità che prende fiato e respira a pieni polmoni, la maternità delle cose, delle idee, cercando sempre, come missione, naturale processo della loro personalità, lo spirito che si cela oltre l’apparenza.      

 

Francesca Codazzi

     

 

       

 

   

 

                 

3 risposte

  1. Il racconto mi fa ricordare la sarta scoperta per caso su suggerimento di una compagna di classe. Era una signora sempre allegra e sorridente che capiva al volo ciò che le veniva richiesto. Le sue mani erano magiche: sapevano trasformare pantaloni in gonne e anche creare nuove confezioni. C’era la prima prova, e la seconda era già praticamente tutto a posto. Puntuale nelle consegne e veloce nelle realizzazioni. Era un piacere incontrarla e fare due chiacchiere con lei. Ora queste figure non ci sono più.

    1. Sì è uno spaccato degli anni ‘60 e ‘70. C’erano tanti sarti e sarte a Cremona. Ho voluto rendere loro omaggio.

  2. Il racconto penso che si ispiri al tuo vissuto. L’ambiente sartoriale era la tua quotidianità e sicuramente hai ricordi affettivi indelebili.
    Hai ben evocato l’amicizia fra le due protagoniste.
    In attesa del prossimo, ti rinnovo auguri di buon compleanno e proseguimento del
    nuovo anno.

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