Il tavolo del Settecento

15 Giugno 2025

Apparteneva a quelle donne che sono consapevoli di essere belle e tali sono giudicate dal comune senso estetico. Donne che non hanno bisogno di amare, appagate soltanto dall’essere amate. Quelle veramente belle erano rare negli anni Cinquanta: dovevano avere un corpo dalle perfette rotondità, gambe lunghe con cosce da statua greca, un fondoschiena alto e slanciato e labbra carnose inserite in un viso dai lineamenti regolari, completato dalla magia di occhi neri o chiari. 

L’abbigliamento che all’epoca andava di moda, per lo più sottane e tailleur, non nascondeva alcun difetto fisico, mentre nei decenni successivi, con l’affermarsi dell’uso dei pantaloni e con il diffondersi della minigonna e di altri capi d’abbigliamento studiati per nascondere irregolarità, le ragazze potevano mettere in risalto anche l’unica cosa bella che possedevano, che bastava per fare colpo. Invece prima, secondo il giudizio popolare, anche il più piccolo difetto escludeva la ragazza dal numero delle belle. 

La bella Giulia, al compimento del ventiquattresimo anno, aveva lasciato il fidanzato che aveva da tre anni perché l’amore – gli aveva spiegato – in lei si stava affievolendo. La verità era che il rango sociale, in cui sarebbe stata inserita, sposandolo, non era di suo gradimento. Nuove proposte di fidanzamento non tardarono ad arrivarle e il nuovo amore toccò a uno studente d’architettura di ottima famiglia, più giovane di lei di un paio d’anni. La freccia di Cupido era scoccata quando vide Nicola alla guida di una Giulietta Sprint rossa. 

Giulia curava la propria immagine come dovesse officiare un rito religioso. Brava in disegno, truccava gli occhi con righe perfette, dipingeva le labbra con altrettanta precisione. Operazioni che duravano sempre 45 minuti sia che dovesse uscire per fare la spesa sia che si presentasse in pompa magna a una festa. Arrivava sempre in ritardo agli appuntamenti, ma la sua bellezza era ben più importante della puntualità. Amava le cose belle e possedeva, tra l’altro, alcuni mobili d’epoca. Non avendo lo spazio in casa sufficiente, li aveva accatastati in un ambiente, accanto all’abitazione, adibito a magazzino. Quando decise di dedicarsi alla pittura, si fece regalare dal fidanzato cavalletto, tele, colori e pennelli, ma non aveva altra possibilità che metterli in quella sorta di ripostiglio soffocato dai mobili. Chiese aiuto al fidanzato. Nicola, che abitava in un paesino a ridosso della città, ottenne dal padre, commerciante di vini, di mandare l’autista a caricare il tavolo del Settecento, al termine del giro delle consegne: venne issato sul camion e collocato sopra il carico di damigiane vuote. A pochi chilometri dal paese, a causa di una brusca frenata, il prezioso mobile precipitò andando in mille pezzi, che però furono raccolti dall’autista, uno per uno. Giulia andò su tutte le furie, ma si calmò quando, portata a vedere quel che rimaneva del bel tavolo, sentenziò che si poteva restaurare. I pezzi furono messi al sicuro e portati nella soffitta della casa di Nicola, in attesa di provvedere al restauro. Quella soffitta funzionava da deposito di oggetti dismessi che, quando diventavano troppi, il padre del ragazzo buttava dalla finestrella giù nel cortile per poi bruciarli nella piccola fornace che serviva per scaldare l’acqua per lavare accuratamente le bottiglie. Il restauro del tavolo, rimandato di tre mesi in tre mesi, cadde nel dimenticatoio. In una delle rituali pulizie della soffitta, il padre buttò giù i tanti oggetti che si erano accumulati, tra cui i pezzi del tavolo del Settecento, di cui aveva scordato l’esistenza. Furono bruciati insieme a tanti altri rottami di legno. 

Dopo un anno, Giulia decise di far restaurare il tavolo. Invano se ne cercarono i pezzi. Quando venne a sapere che erano stati bruciati, fu presa da una crisi isterica. Urlando sguaiatamente cacciò per sempre il fidanzato. A Nicola non rimase che avviare, rassegnato, il motore della sua Giulietta Sprint. 

 

Sperangelo Bandera

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