Attenti al lupo!

20 Giugno 2025

Il nonno di Cappuccetto Rosso aveva molte primavere sulle spalle. Poteva contare almeno 1.116 lune piene. Era ancora forte, ricordava a memoria ogni centesimo speso nella sua vita, per le bollette, per far studiare la figlia, per acquistare le macchine, la tv e concedersi qualche vacanza. Era il tipo che controllava i soldi spesi al supermercato. Era parsimonioso, accorto, frugale a tavola, senza rinunciare mai al formaggio e ai biscotti. La sua cena ideale consisteva in un pezzettino di cacio, tre grissini, mezzo bicchiere di lambrusco. Non frequentava i bar e di rado prendeva un caffè deca con qualche amico. Il cuore malato saltellava da tempo  e una gruccia portata con eleganza aiutava il nonno a sostenersi. Era di modi garbati. Gli piaceva essere in ordine. Del resto da giovane era stato belloccio e con la vecchiaia non aveva perso un guizzo di vanità.

Aveva buoni rapporti con tutti. I negozianti della via che percorreva durante la sua passeggiata mattutina uscivano per salutarlo e scambiare due parole con lui. Al parco aveva un gruppetto di amici. Era gioviale, ma sapeva essere caparbio e ostinato. Faceva di testa sua, sempre. Non ascoltare i consigli era il suo peggiore difetto.  

Cappuccetto lo controllava a vista: ”Devi bere tanto. Devi mangiare frutta e verdura”. Lo tempestava di domande. Quella mattina gli fece mille raccomandazioni. Il sole delle nove sparava raggi incandescenti. Il pavé friggeva. Umidità e polveri sottili erano alle stelle.  In frigo c’era solo una mozzarella. “Vado al parco e poi a fare la spesa” disse. Per lui era un supplizio, perché significava innanzi tutto spendere, ma era un compito ingrato che non voleva delegare.

Cappuccetto aveva, al suo opposto, le mani bucate. Gli riempiva la dispensa di prelibatezze che poi lui ignorava, lasciandole marcire, fra vampate di rabbia per lo spreco. Non aveva conosciuto la fame, ma aveva conosciuto, sin da piccolo, la fatica per portare a casa la pagnotta.

Quel giorno fu perentorio: “Vado io”.

“Allora, ti accompagno”, incalzò Cappuccetto.

“No”, tagliò corto lui. 

“Non ti fermare a parlare con gente che non conosci”, fu l’ultima esortazione della nipote.  

Il nonno fece il suo giro. La signora del negozio di abbigliamento sul corso lo vide passare e uscì per salutarlo. Qualche parola, il caldo, la giornata che non passa perché i clienti scarseggiano. Le solite lamentele: la città spenta, tante serrande chiuse, il rimpianto per l’animazione degli anni ’80 quando giravano più soldi, quando l’aria condizionata dei centri commerciali non aveva ancora sostituito il piacere di una calda passeggiata in città.   

Anche al parco le solite chiacchiere all’ombra degli alberi. Con il generale parlava di quando militare aveva gestito lo spaccio e di avventure che ricordava con dettagli precisi. Con la signora Carla parlava della moglie scomparsa qualche anno prima. Gli mancava. Lo aveva scritto con la sua grafia incerta nel test geriatrico. Il dottore gli aveva chiesto di scrivere la prima cosa che gli venisse in mente e lui vergò: “Mi manca mia moglie”. Erano stati insieme settant’anni.  Camminava con la sua stampella come se fosse il simbolo del sostegno perduto. In casa si muoveva senza ausili, non servivano. Quella casa parlava di lei, ne sprigionava il respiro. Lei era il genio del luogo e lui lì si sentiva al riparo. 

Si trattenne al parco più del necessario. Anticipava mentalmente i rimbrotti di Cappuccetto che si preoccupava che non stesse fuori nelle ore più calde. Si accinse a rincasare verso mezzogiorno senza avere fatto la spesa.

Stava per varcare il portone d’ingresso quando, da dietro, sentì una voce cortese che gli chiedeva se in quell’edificio ci fosse un medico. Il nonno si voltò lentamente e si trovò davanti una signora piacente, sulla cinquantina, alta, ben vestita e curata. Parlava un italiano pulito, senza inflessioni.

“No – rispose lui – . Qui non ci sono medici, ma ce ne sono diversi nella via. Se mi dice il cognome posso aiutarla”.

“Non lo ricordo”,  replicò lei, stringendogli le mani unite con un rapido gesto gentile.  Pieno di dolcezza nello sguardo, il nonno entrò in casa. Subito dopo aver chiuso la porta si accorse che non aveva più al polso il suo amato orologio che aveva comprato negli anni sessanta poco dopo essersi sposato.

Uscì di nuovo, con l’istinto di acciuffare l’avvenente, svanita come l’acqua dall’asfalto rovente.

“Ma dove potevo andare con le mie gambe malferme?”, si giustificò più tardi davanti ai carabinieri che in dieci minuti erano piombati a casa sua, avvisati da Cappuccetto del furto con destrezza. Avevano abbandonato il presidio al parco dove stazionavano da quando la città era sotto i riflettori per la recrudescenza di fatti criminosi. C’era qualcosa di insolito in questo nuovo volto di una città sonnolenta e pacifica, diventata all’improvviso insicura. 

Cappuccetto, con calma disse: “Ti avevamo detto di non uscire con quell’orologio di marca e così bello al polso”.

“Ma io ne ero innamorato” si giustificò il nonno. In effetti quell’orologio d’oro era ancora moderno dopo così tanti anni. Il nonno lo voleva donare alla nipote: sarebbe stata la sua eredità. Non aveva altro da lasciarle, le aveva detto e ripetuto.

“Comunque è passata, nessuno ti ha fatto del male, questo è ciò che conta” lo tranquillizzò Cappuccetto. 

Il carabiniere lo spronò: “La prossima volta che un estraneo cerca di avvicinarla, a costo di sembrare scortese, lo mandi a quel paese”.

“Ma lei è stata gentilissima, gentilissima, gentilissima”, ripeteva il nonno, unendo le mani, come a rievocare quell’attimo di calore umano che nascondevano un tranello così vile e meschino.  

“Ci sono lupi, travestiti da agnelli” sentenziò la nipote. 

“Le faccio i complimenti per la sua lucidità, lei è un uomo forte. Ma se è vero che bisogna ascoltare gli anziani per la loro saggezza, è altrettanto vero che i giovani vedono più lontano. Li ascolti” concluse il carabiniere.

Il nonno portò le mani al volto senza riuscire a trovare altre parole. Pensava, come molti anziani, che fosse intollerabile non poter più essere se stessi, genuini, spontanei, fiduciosi, perché il mondo nascondeva minacce. Del resto, quell’orologio l’aveva comprato per indossarlo. Lo portava al polso da decenni, anche quando in cascina impastava in un mastello il mangime che poi dava agli animali.

“Sono arrabbiato” confessò infine con rassegnazione il nonno, vincendo il pudore che gli impediva di manifestare questo sentimento.

 

Francesa Codazzi

 

   

9 risposte

  1. è chiaro che i beni che ci appartengono abbiano scandito i momenti della nostra vita, ed ad ognuno di essi è legato un ricordo, la nostra memoria è associativa. Pertanto un oggetto che ci appartiene ha un duplice valore: quello intrinseco dell’oggetto in sé, e quello affettivo che ci ricorda chi siamo, la nostra storia. Ecco perché quando ci viene tolto un bene percepiamo che il ladro ci abbia portato via non solo un valore materiale ma soprattuto una parte di noi, che non ritornerà più: questa la senzazione che ci fa arrabbiare. Ci si sente impotenti, frustrati, soprattutto se si è sul finire della propria vita, si è consapevoli che non ci sarà più tempo per recuperare ciò che ci sembra ci sia stato portato via per sempre. La forza del ricordo affettivo deve superare il valore del bene, solo così si può metabolizzare e quindi superare la sofferenza provata per quello che ci hanno tolto in un attimo … velocemente. Certo che rimane l’amaro in bocca, annichiliti da quanto accaduto, per essere stati giocati irrimediabilmente dalla sorte in quel modo, no, non ce lo meritavamo!

    1. Grazie, per la sua analisi così chiara e centrata sul piano psicologico. Ha approfondito il tema accennato nella fiaba con valutazioni che condivido.

  2. Bellissimo racconto, un modo costruttivo e catartico per lasciarsi alle spalle esperienze spiacevoli. Mi hai fatta commuovere…

  3. Bel racconto, come sempre rivela la sensibilità di Francesca e la sua attenzione per i fragili. Vergognoso e inaccettabile.Vigliacco e schifoso. Approfittarsi di persone anziane che hanno fiducia nel prossimo. E dopo aver superato il fatto si sentono stupidi anche se sono lucidissimi. Perdono fiducia in sé stessi e diventano ancora più vulnerabili. Che brutto mondo.

  4. Edulcorata, nella narrazione, una triste e brutta vicenda che può essere riverberata in chissà quante altre città.
    Una delusione che si trasforma in rabbia, e viceversa….e non si può nemmeno scegliere cosa sia peggio: se essere stato derubato di un oggetto di valore materiale ed affettivo o essere stato ferito per aver ingenuamente creduto ad una gentilezza rivelatasi falsa. Non essersi fatto male, basterà a lenire il dolore per l’accaduto…e non si può nemmeno affidare al tempo la guarigione. Solo la saggezza può intervenire

    1. Cara Vanna, edulcorato è un aggettivo che conferisce a qualcosa una patina negativa. Ho cercato di portare un fatto di cronaca su un piano più simbolico. Spero, come accenni, di averlo universalizzato. Potrebbe essere successo ovunque. Come dici.

  5. Il racconto è legato ad un episodio ignobile subito involontariamente dal protagonista.
    La perdita di un bene, appartenuto per lungo tempo, porta inevitabilmente al disagio di essere impotente a rimediare.
    É vera la riflessione finale, importante che non sia finita in modo peggiore la disavventura. Il tutto si sdrammatizza, ma lasciando avvilito il nonno di Cappuccetto Rosso.
    Cara Francesca, come sempre, coinvolgi il lettore e le emozioni sono immediate.
    Partecipo al dispiacere e mi sono immedesimata.
    Un caro saluto alla prossima!!👋👋🤗😘

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