Terriccio smosso e un po’ rialzato, al centro dell’immagine, circondato da foglie secche cadute dagli alberi vicini, con le quali si confonde nel colore (foto 1 centrale). Alcune in bilico su un lato, molte altre mischiate alle foglie di prato, ancor verdi. Segnali contrastanti dell’approssimarsi dell’autunno , in cui spicca questo “terriccio” che ci riserverà non poche sorprese e che rimandano all’incredibile,inimmaginabile e spesso stravagante sviluppo della vita, a partire da quelle meravigliose geometrie naturali da cui nasce, e dalle mirabili opere umane e animali a cui è correlabile, sin dall’antichità, o dagli usi rituali di popoli “leggendari”, quali ad esempio i pellerossa delle praterie nordamericane, i Sioux e i Crow in particolare.
Altrove, questa massa presenta un singolare viraggio al blu tendente al nero (foto 2), e un aspetto morbido, levigato, come se fosse stata plasmata da un artista invisibile, a produrre manufatti di una terracotta speciale (e in effetti quel blu che c’entra, se non per aggiunta di uno smalto?) , la cui forma, in un viaggio a ritroso nel tempo, verrà a definirsi in vari modi, prima del suo totale disfacimento.
Questi esemplari, ad esempio (foto 3 ), come due statuette o due piccole torri, ben distanziate tra loro al limite del profilo cementato di un’aiuola cittadina, non possono che suscitare stupore, e far pensare a un accattivante mistero.
Le sue varietà morfologiche non hanno limiti . In questa (foto 4) si potrebbe pensare all’osso di un animale, a un femore con la testa rivolta verso l’alto. A proposito di arti anatomici, il nostro essere è stato chiamato anche “piede dell’uomo morto” , a cui conduce pure il pallore cadaverico della parte inferiore. Avevo già parlato delle “dita del morto”, il fungo della Xylaria polimorpha, ma in questo caso con chi/che abbiamo a che fare?
Il mistero si infittisce e diventa più inquietante!
L’allargamento della parte superiore gli è valso l’appellativo di “pera rovesciata” (foto 5) , ma ancora non siamo arrivati alle denominazioni per cui esso è passato alla storia, quella scientifica e quella popolare. Si potrebbe pensare a delle pietre, e in effetti il suo nome scientifico a esse riconduce. Si chiama infatti Pisolithus arhizus (Scop.:Pers.) Rauschert 1959, che letteralmente significa “Pisello di pietra senza radici”. Difatti a scambiarlo per una pietra ci sarebbe poco da obiettare; per un pisello non so. Una pietra vulcanica visto il colore giallo zolfo diffuso sullo pseudogambo con alternati blu di improbabili zaffiri incastonati. Guarda caso cresce bene anche su terreni lavici.
Già, ma come ci sta il riferimento all’assenza delle radici per una pietra? Forse perchè poco ancorata sul terreno? Ma questo vale per tantissimi funghi, se ci riferiamo alla loro facilità di distacco, perchè di fungo si tratta, anche per il Pisolithus.
Guardando la forma ovoidale di quest’altro soggetto (foto 6) arriviamo al suo nome popolare più comune, quello di “Tartufo di Boemia”. In realtà non si tratta di tartufo (Tuber sp) , che è un fungo a tutti gli effetti. Appartengono a generi ben diversi, anche come modalità di crescita, essendo il Pisolithus semiaffiorante; sotterraneo (ipogeo ).
Analogamente al tartufo, tuttavia,il nostro fungo è dato come commestibile, da giovane però, e storicamente noto per essere apprezzato proprio in Boemia, regione dell’Europa centrale da cui prende il nome. In Italia parrebbe consumato in alcune regioni del centro sud, e tuttavia le sue qualità organolettiche non sembrano essere particolarmente gradevoli, perciò è chiamato Tartufo dei poveri.
In definitiva, la caratteristica peculiare dei funghi, per la quale vengono innanzitutto ricercati, e cioè quella culinaria, non sembra particolarmente rilevante nel nostro Pisolithus. D’altra parte i funghi hanno tante proprietà, che spesso vengono sottovalutate proprio perchè il pregiudizio della commestibilità tende a mascherare tutto il resto.
Il tartufo di Boemia, dunque, ci insegna a guardare oltre, oltre la pancia, a partire dalla sua bellezza artistica. Bellezza non si direbbe a guardare questi esemplari che neanche tanto vagamente richiamano degli escrementi animali.(foto 7). Io però mi riferisco alla bellezza interiore, alla sua anima , per vedere la quale non c’è bisogno di speciali strumenti o di estasi mistiche; basta l’occhio nudo eventualmente con l’ausilio di un piccolo zoom. Sezionato il suo interno, ci apparirà un mondo sconosciuto, tanto bello quanto inatteso (foto 8, 9, 10).
Numerose cellette strettamente accostate tra loro ,chiamate peridioli, all’interno delle quali maturano le spore da cui escono una volta perforata la fragile membrana che le avvolge, il peridio, andando a depositarsi in massa di color tabacco sulla superficie esterna del carpoforo.
A prima vista ho pensato alle cellette di un alveare, che sono esagonali , mentre quelle del Pisolithus sono circolari o irregolarmente poligonali,sebbene abbiano in comune il ritmo formale ripetutamente incalzante. A un certo punto evolutivo, le cellette del Pisolithus appaiono bombate, per la pressione interna delle spore mature, che assieme alla foggia ricorda le strade lastricate dell’antica Roma, bombate pure esse al centro per favorire il deflusso dell’acqua piovana ai lati della via.
Come non pensare, infine, alle tessere di un mosaico bizantino, o a un pavimento piastrellato e multicolore ove il bianco si alterna al marrone e al blu, percorsi da strie di essudato giallo dorato o sulfureo?
Tuttavia, questa apparente ossessività nella presentazione ha fatto pensare all’horror vacui, ovvero a quella sorta di angoscia terrifica degli spazi vuoti, che rimandano all’indefinto e quindi al caos, all’ignoto, fonti di profondo turbamento e pertanto da riempire a tutti i costi. Guardando il bicchiere mezzo pieno, invece, si può pensare al suo contrario, e cioe’ all’amor pleni, all’afflato verso la materia, nella sua raffinata e ripetitiva simmetria di figure apparentemente uguali, che spinge a rappresentarle in tutto lo spazio possibile. Parimenti, il nostre pseudo tartufo usa tutto lo spazio disponibile per sfruttare al massimo la sua funzionalità.
Con tutto questo, però, che c’entrano i pellerossa citati all’inizio? Guardate la mia mano foto 11), imbrattata dopo aver toccato la massa sporale del fungo. E’ rimasta sporca a lungo di quella polvere colorata e ho dovuto lavarmi non solo con l’acqua ma anche col sapone per toglierla. Non so quanto si sarebbe mantenuta se l’avessi lasciata stare, ma questa proprietà fu anticamente sfruttata per tingere i tessuti, per la quale fu dato al fungo il nome di Pisolithus tinctorius (Pers.) Coker e Courch 1928.
Di tintura naturale dunque si tratta. Le tinture naturali sono state ampiamente usate nei secoli in tutti i continenti fino all’avvento della tintura industriale che però, risultando più tossica e inquinante, ha portato a un ritorno alla tintura naturale. Di esse si servivano pure i pellerossa dell’America, che oltre a usare argilla ricche di minerali ferrosi che servivano da mordenti per la tintura del corpo , usavano anche vegetali ed essendo il nostro fungo distribuito anche nelle Americhe, non è escluso che potesse essere usato anch’esso allo stesso scopo.. Diversi infatti i funghi con proprietà coloranti.
Decorazioni, quelle corporee, che avevano simbolici significati, dal prepararsi alla battaglia e incutere timore nei nemici, all’ingraziarsi le divinità o scacciare gli spiriti maligni.
A proposito di spiriti, chi mai rappresenterà questo esemplare di Pisolithus dall’inequivocabile forma di un viso umanoide, col naso sporgente e un po’ adunco, il mento pronunciato, gli occhi incavati e la testa come coperta da un berretto che potrebbe però essere un elmo, il che fa pensare a uno spirito della guerra? Che vorrà dirmi con quella bocca semiaperta? (foto 12)
Chissà se gli stessi interrogativi, in una situazione analoga, cioè di fronte a una pietra o a un fungo dall’aspetto più o meno vagamente antropomorfo, se li posero anche i Sioux e i Crow delle praterie.
Stefano Araldi










