L’uomo delle castagne, una delle ultime proposte targate Netflix, è un thriller ben fatto, che soddisfa tutte le richieste che gli spettatori possono legittimamente pretendere. La trama, non
originale (ma si sa che il genere si struttura sopra capisaldi ben collaudati) risulta compatta e organizzata logicamente, senza ingenuità o fastidiose inverosimiglianze cronologiche o di luogo. Il colpo di scena, nel sottofinale, è assicurato, anzi, la genuina amarezza della detective protagonista è uno dei momenti migliori del sottotesto narrativo. Il primo merito sta certamente nel fatto che la sceneggiatura segue da presso un testo narrativo, di Soren Sven, che compare anche in sede di scrittura: questo consente la solidità e la linearità del plot, che non mostra gli sbandamenti e le divagazioni fastidiose, di cui spesso si servono gli autori per allungare il brodo e raggiungere il numero delle puntate programmate. La regia, per quanto professionale e quindi non particolarmente creativa, (cosa che del resto non le viene richiesta), appare efficace e rapida, tocca vertici di alta tensione, specialmente nella puntata conclusiva, in cui tutti i nodi vengono al pettine. L’uomo delle castagne, tuttavia, presenta un valore aggiunto, un tema profondo che scorre sottotraccia, e affiora con forza nel finale; un motivo che apparenta (ma non è l’unico caso) il thriller e più spesso ancora il noir, alla tragedia per antonomasia, quella greca antica. Non di rado, infatti, scrittori che nessuno racchiuderebbe dentro i confini di un genere, e che si sono interrogati invece, con profondità e con dolore, sulla condizione umana, le sue contraddizioni, il suo destino spesso paradossale ed incomprensibile, hanno utilizzato il giallo per esprimere in modo letterariamente efficace la loro problematica esistenziale: due nomi fra tutti, Durenmatt e Sciascia.
Qui, in questo più modesto prodotto di intrattenimento, si sfiora il tema della responsabilità umana: nella fattispecie l’idea che ogni errore (o, meglio, ogni colpa) scatena una serie di eventi potenzialmente distruttivi, che l’uomo non riesce più a controllare. La menzogna di una bambina, incosciente e superficiale, genera i mostri. Si tratta di quella che i greci antichi chiamavano ‘amartia’, colpa appunto, e che, esattamente come in questo serial, non ammette né attenuanti né giustificazioni. Si pone assoluta e pesante come un masso, e non viene alleggerita neppure dall’incoscienza di chi la compie. Questo amaro fatalismo diventa la linfa sotterranea che alimenta la vicenda de L’uomo delle castagne, che non a caso lascia un’impressione finale amara e inquietante.
Vittorio Dornetti