Il 22 giugno a Roma, presso il Centro Congressi I Cavour si è tenuta la cerimonia di premiazione del concorso letterario Winning Book 2024 indetto dalla Associazione Caffè delle Arti di Roma.
Tra i moltissimi testi pervenuti da ogni parte d’Italia, il romanzo “Undici Giorni” edizioni Panda di Licia Tumminello ha ricevuto il riconoscimento di finalista con segnalazione, nella categoria narrativa edita. Dunque ancora un’enorme soddisfazione per Licia Tumminello, dopo la segnalazione del Comitato di Lettura del Premio Calvino ed. XXXV e la vincita del Premio Giorgione 2023, che le è valsa la pubblicazione.
Con questo romanzo l’autrice narra le vicissitudini di una famiglia borghese siciliana negli undici giorni antecedenti il terremoto del Belìce che ha devastato la Sicilia occidentale nella notte tra il 14
e il 15 gennaio 1968. È l’affresco di un’epoca, un romanzo corale in grado di trascinare il lettore nell’apparente tranquillità della vita quotidiana della famiglia Accardo, in un contesto storico e in
un territorio in cui il conflitto tra fedeltà all’educazione ricevuta e il desiderio di fare scelte di libertà individuale raggiunge il culmine.
Il libro è in vendita a Cremona presso la Libreria del Convegno di corso Campi 72.
Questo è il prologo col quale si apre il romanzo.
PROLOGO(1890/1920)
Amilcare Accardo non conosceva storie di marinai; libri e atlanti non ne circolavano in casa sua. Lui, bracciante figlio di bracciante, nato e vissuto in un paesino dell’entroterra trapanese, il mare non lo aveva mai visto. Certe volte però, appena faceva giorno e si alzava il vento, o all’imbrunire, nei pomeriggi d’estate roventi per lo scirocco, gli giungeva un sentore di salsedine; si girava a ovest e annusava l’aria. Diceva di udire persino le grida e i canti dei pescatori.
Bambino, era stato folgorato da un’immagine conservata nella sacrestia della Chiesa Madre: il mare gonfio di rabbia e bianco di schiuma, uno scafo squarciato contro gli scogli e, sullo sfondo, le varcazze scure, le reti e la tonnara di Bonagia. Ex voto offerto alla Madonna del Piraino da una parrocchiana per aver salvato il marito da una tempesta.
Il mare gli assorbiva la mente, come il pane duro assorbe il latte nella tazza, la mattina.
Poco più che ventenne, incurante della riprovazione del padre, aveva lasciato la casa di Salaparuta, la giovane moglie, gli amici e la fatica nei campi ed era partito per Trapani. In testa, l’idea di fare il pescatore. Non sapeva neanche nuotare ma con le sue forti braccia e l’impudenza della gioventù, qualche lavoro di carico e scarico lo rimediava ogni giorno.
Viveva in un capanno abbandonato in contrada San Giuliano, a mezz’ora a piedi dal porto peschereccio, dal mercato e dalle viuzze ventose del centro. Le isole Egadi all’orizzonte e monte Erice sulla destra erano una presenza magica: apparivano e scomparivano, nelle giornate di nuvolo.
L’odore del mare, finalmente, gli riempiva i polmoni e il cuore, notte e giorno.
La fortuna premia gli audaci e Amilcare non era un pavido. Entrato nelle simpatie di un commerciante di tonni, che lo volle presto con sé a Palermo in una nascente fabbrica di lavorazione del pesce, nel giro di qualche anno aveva acquisito conoscenze ed esperienza, e deciso di avviare una propria attività commerciale.
Per il figlio Guglielmo sognava il firmamento: che studiasse, che avesse un avvenire. Il prestigio.
Quando il ragazzino ebbe compiuto dieci anni, Amilcare trasferì tutta la famiglia in città.
Aveva acquistato una graziosa palazzina, non lontano dalla stazione centrale, proprio di fronte a Villa Giulia e all’Orto Botanico, a due passi dal Foro Italico. Le stanze di rappresentanza davano su via Lincoln, le camere su Vicolo Pallone e la cucina sul cortile omonimo.
Cortile Pallone era ampio e rettangolare. Sul lato maggiore dominava la cancellata del giardino di un palazzo nobiliare; sugli altri lati, oltre al retro della casa di Amilcare Accardo, vi erano abitazioni modeste, un tempo dimore dei servitori. Era animato dalla rumorosa allegria dei bambini che, indifferenti delle diversità di ceto e provenienza, vi trascorrevano le ore libere. Ma era all’occorrenza officina, salotto e cucina per i residenti.
Guglielmo, figlio unico, intelligente e sveglio come il padre, si era iscritto in economia e commercio, ma la sua passione erano le scienze naturali. Nei sogni del genitore, con quella laurea, avrebbe potuto dirigere un’azienda, essere un imprenditore, arricchirsi e fare carriera, perché no, anche in politica.
Ma Amilcare non aveva fatto i conti né con il carattere del figlio – che non avendo la preoccupazione di buscarsi il pane quotidiano era sempre pronto a divertirsi – né con la guerra che avrebbe distrutto famiglie e stravolto il mondo intero. Soprattutto, però, non aveva dato importanza al suo amore viscerale per la terra dove era nato.
Guglielmo, studente universitario, vicino ai giovani socialisti, aveva assistito agli effetti deludenti della unità d’Italia, alla fuga di tanti, in cerca di nuove possibilità di vita fuori dall’isola e oltre oceano. Aveva sperimentato la frustrazione della leva obbligatoria e l’impossibilità di opporsi al sistema costituito. Aveva costatato come i giovani impegnati politicamente fossero considerati alla stregua dei sovversivi. Cercava di non farsi coinvolgere e, pur non avendo lo spirito combattivo del padre, era tuttavia un pragmatico. Pacifista convinto, non credeva nella rivoluzione, ma nella mediazione e nei piccoli passi; vedeva nella rivolta solo sangue, dolore e sconfitta per tutti. Non avrebbe mai imbracciato un’arma contro un suo simile.
Gli amici lo prendevano in giro, lo consideravano un debole e lo chiamavamo Gesù Cristo. Piuttosto che battersi – dicevano – avrebbe offerto l’altra guancia.
Ma quale altra guancia! Ma quale Gesù Cristo!
Nei primi giorni di gennaio del 1915, quando soffiavano venti di guerra e da mesi in facoltà non si faceva che parlare dell’imminente intervento dell’Italia, Guglielmo si era recato a Salaparuta: aveva bisogno di riflettere, perché di certo avrebbero richiamato anche lui – questione di tempo – e il pensiero lo terrorizzava. Occorreva mutare il corso delle cose, o almeno provarci.
Dopo notti trascorse insonni a cercare una soluzione, una mattina propose al suo amico Salvatore di fare due passi fuori dal paese in cerca di funghi, giusto per ammazzare la giornata. Faceva molto freddo, ma il cielo era limpido, e il sole presto avrebbe intiepidito l’aria. La giornata migliore per una scampagnata. E se prendevano la mula, aveva detto all’amico, era anche meglio: facevano prima e senza faticare.
Sapeva che Salvatore portava sempre con sé il fucile così, se gli capitava sotto tiro qualche beccaccia, non perdeva l’occasione per una cena diversa.
«’U fucili ’u purtasti. Facisti buono. Oggi vogghiu sparare».
«Ma si nun hai mai vulutu sparari, manco quannu eri soldato!»
«E oggi ti fazzu vidiri ca ci provo, se tu mi insegni».
Licia Tumminello
Una risposta
La trama del romanzo è avvincente,lo stile artistico molto scorrevole,capace di calarsi nell’animo dei personaggi per metterne a nudo i propri sentimenti,paure,incertezze.Le problematiche affrontare sono molto attuali e significative.Ancora una volta la scrittrice ci affascina con il suo tipico stile incisivo.