Il 14 novembre alle ore 17,30 nella saletta Mercanti della Camera di commercio verrà presentato il quaderno ‘I legumi nella cucina cremonese ieri e oggi’ dell’Accademia Italiana della Cucina, delegazione di Cremona, curato dalla storica e accademica Carla Bertinelli Spotti. Qui sotto il suo intervento.
Il tema scelto quest’anno dall’Accademia Italiana della Cucina riguarda i legumi nella cucina della tradizione regionale e, come sempre, ogni delegazione è stata invitata ad approfondirne gli usi nel proprio territorio.
L’invito a Cremona è stato raccolto da un gruppo di amici e conoscenti che via via si è accresciuto nel corso degli anni (l’esordio nel 2006 con la cucina del pesce d’acqua dolce); il loro contributo è vario ed eterogeneo: chi offre testimonianze e ricordi, chi i propri studi e le competenze professionali, chi gli approfondimenti curiosi nati per l’occasione.
I fagioli sono stati a lungo una delle glorie di Cremona, prima della mostarda e del torrone, tant’è che nel Cinquecento Teofilo Folengo (1491- 1544), nel Baldus, suggeriva “si mangiare cupis fasolos vade Cremonam”(se vuoi mangiar fagioli vai a Cremona) e Alessandro Tassoni (1565-1635) ne La secchia rapita usa per riferirsi ai cremonesi il sinonimo mangiafagiuoli… A manca man, dove un torrente stagna,/con quattromila suoi mangia fagioli/ stava Bosio Dovara alla campagna. E l’appellativo Magna phaselus (grande imbarcazione) era stato attribuito a Cremona, la città costruita sulle rive del Po, per la sua forma allungata, con il Torrazzo in mezzo quale albero maestro per il tentativo di nobilitare l’ironico mangiafagioli. Proprio ad una cremonese, Claritia, si attribuisce poi l’invenzione della gustosa quanto semplice ricetta dei fagioli lessati e conditi con olio, pepe e sale come nelle insalate moderne; o almeno lo è stata nella fervida immaginazione di Ortensio Landi (1512-1554), umanista e poligrafo di origini piacentine, autore di un tanto minuzioso quanto fantastico “Catalogo delli inventori delle cose che si mangiano e si bevono…” pubblicato a Venezia nel 1548.
A Cremona, oltre alle citazioni letterarie, documenti diversi attestano la coltivazione di legumi già nel IX sec., ma è solo nell’Ottocento che si raccolgono informazioni precise circa le tipologie e le quantità degli ortaggi coltivati nel nostro territorio insieme alle osservazioni di medici e studiosi che ci consentono anche di conoscere l’uso che se ne faceva in cucina. Mi riferisco ad Alessandro Tassani (medico provinciale che, nel momento di lasciare Cremona per svolgere l’attività a Como, pubblica nel 1847 un saggio in cui, prendendo in esame i legumi coltivati in provincia, ricorda piselli, fagioli, ceci, lupini e lenticchie) e al dottor Giacomo Marenghi che raccoglie i dati, relativi alla provincia di Cremona, per l’Inchiesta agraria promossa da Stefano Jacini, dati pubblicati negli Atti del 1882.
Per quanto riguarda le abitudini alimentari sappiamo molto poco, ad esempio, che le monache di Soncino (visita pastorale del vescovo Speciano 1539- 1606) in quaresima mangiavano minestra di ceci la domenica e il giovedì, fagioli il martedì, fave arrostite il venerdì. E se così mangiavano in quaresima le monache, è probabile mangiassero così anche i cremonesi del tempo.
Nel Settecento è La cuoca cremonese (1794) che consiglia di acquistare sempre prodotti di stagione e non solo per i legumi: “I piselli si acquistano da maggio a giugno e sono eccellenti per fare ogni sorta d’intingolo tanto in grasso quanto in magro” mentre i piselli secchi sono adatti solo per cucinare sughi.
Nell’Ottocento sono i due medici citati che ci parlano del cibo consumato nelle campagne distinguendo il cibo proprio dei contadini ben diverso da quello dei fittabili.
Altre notizie si ricavano dalle feste: il 17 gennaio, festa di S. Antonio protettore delle stalle e degli animali, in alcune cascine veniva regalata polenta “infazulàada” (cotta con i fagioli) alle famiglie più povere perché celebrassero anche loro la festa del santo. Il giovedì santo si mettevano a mollo separatamente fagioli dall’occhio e lenticchie e si preparava la “zuppa del venerdì santo” che si mangiava ben calda nelle scodelle intingendo pan biscotto. In uso ancor oggi poi consumare il 2 novembre, per la ricorrenza dei morti, fagiolini dall’occhio con le cotiche offerte dagli osti ai propri clienti. E proprio perché sono scarse le notizie che abbiamo trovato circa le abitudini alimentari, tanto più preziose risultano quindi le testimonianze portate da amici e conoscenti. Veniamo così a sapere che proprio il lavoro attento e accurato degli uomini nell’orto consentiva di fare minestre saporite tutto l’anno, minestre arricchite di ortaggi e legumi perché i bambini crescessero forti e sani. Bruna ad esempio ci racconta che il suo papà in marzo seminava fagiolini e fagioli (dall’occhio, di Spagna, borlotti). Tutte le semine si facevano di venerdì e quando c’era la luna vecchia perché altrimenti le verdure “andavano in gallo”. Non si seminava il 7, il 17 e il 27 di ogni mese perché poi non cresceva bene niente. Tre le qualità di piselli coltivate dal suo babbo: nano, metà rama e telefono, secondo l’altezza cui arrivavano.
Interessanti le notizie su ceci e lupini. Non si coltivavano negli orti cremonesi in quanto il poco spazio disponibile era occupato da altri ortaggi di più largo consumo. A volte il proprietario nel patto colonico inseriva la possibilità di coltivarli tra i filari delle vigne o del granoturco. Poi, una volta maturati, i ceci erano fatti seccare come si faceva con i fagioli mentre i lupini venivano messi in un sacco di iuta e immersi in un fosso perché, così si diceva, l’acqua corrente toglieva loro l’amaro. “Sisèer” era chiamato il venditore di ceci e lupini: si spostava in bicicletta e sul portapacchi posizionava un cesto col coperchio, un barattolo fungeva da unità di misura. Doriana ne ricorda uno, Enrico Fanti, che al Ponticello o dentro allo stadio di Cremona riempiva coni di carta di giornale con ceci o lupini spruzzati di sale e li vendeva a numerosi clienti.
Ambrogio, che di cucina se ne intende, ancora oggi ricorda come speciale e indimenticabile la trippa con i fagioli della zia, mentre Giancarla evoca la piacevolezza di un piatto di riso e piselli consumato in una sera di maggio. Antonietta, cremonese doc, scopre le fave solo dopo il matrimonio con un siciliano e Lilluccio ricorda con tanta nostalgia il mitico “Miglietto” per i suoi favolosi stràciamüüs e grande è la gioia di Doriana nel gustare con Virginia i buoni fagiolini da lei coltivati. Liliana, insieme alla interviste a due vecchi ortolani (Giorgio 1937 e Valter 1939), porta testimonianze storiche e archivistiche frutto dei suoi studi. Davide infine ci fornisce un interessantissimo contributo sulla dieta dei paisan che proprio con i legumi sopperivano alla mancanza di proteine della carne.
Il gruppo Volontari Mura di Pizzighettone ci racconta come, con grande determinazione, sia riuscito ad ottenere il riconoscimento del fagiolino dall’occhio quale prodotto tipico lombardo e a creare una festa che da più di trent’anni richiama migliaia di turisti buongustai.
E’ continuata la preziosa collaborazione di due amici dell’Accademia: Valerio ci accompagna in un viaggio interessante e coinvolgente che parte dal Neolitico, ovvero dalla nascita dell’agricoltura e arriva fino ai giorni nostri. Di taglio diverso il saggio di Agostino che affronta l’argomento proponendoci l’elenco dei legumi descritti secondo le loro caratteristiche botaniche, ne riporta poi la denominazione nel dialetto cremonese accompagnandola con numerosi proverbi e tanti simpatici ricordi della sua infanzia.
La sezione “Ricette”, è particolarmente ricca perché consente di integrare le scarse notizie sull’uso in cucina dei legumi, comprende: ricettari cremonesi, dal primo pubblicato nel 1794 all’ultimo del 2010, ricette di Agostino e Doriana e “ricette letterarie”, quelle suggerite dall’esule Giacomo Castelvetro agli inglesi, mangiatori di carne, agli inizi del Seicento; quelle della cucina futurista di Marinetti e Fillìa e quelle del medico scrittore Alberto Denti di Pirajno agli inizi del Novecento.
Una sezione è dedicata a termini, modi di dire e proverbi nel dialetto cremonese riportati dal Peri nel 1847 e ripresi nel dizionario del 1976. Si riferiscono soprattutto ai fagioli ma riguardano anche piselli, ceci, fave, lenticchie e lupini. Oggi non si usano quasi più e non si riconoscono nemmeno. Quanti di voi, sentendo parlare di “ruviòon”, sanno che si parla di piselli?
Altri spunti curiosi e interessanti sul tema ci sono infine offerti da Antonia Grazia Rossi e da Giorgio Maggi.
Antonia propone i suoi approfondimenti sulla simbologia legata ai legumi in riferimento al mondo dei vivi e al mondo dei morti.
Giorgio, insegnante di chimica, appassionato studioso e conoscitore di tutto quanto riguarda Cremona, la sua amatissima città, spazia dalle favole (Jack e il fagiolo magico, la principessa del pisello), ai fagioli di cui erano golosi Amilcare Ponchielli e Giacomo Puccini, ai legumi nell’arte…
Precedono i poeti dialettali cremonesi (Lanzoni, Zanetti e Rossi) il noto epitaffio posto sulla tomba di Bertoldo, l’astuto contadino (portato alla corte di Verona dal re Alboino) “che morì con aspri duoli per non poter mangiar rape e fagioli” e l’elogio della minestra di fagioli alla Toscana, ricetta del cuore del poeta e scrittore Giuseppe Lipparini. E questo è tutto.
Franco Cimardi che da anni impreziosisce con i suoi acquerelli questi quaderni è l’autore della bella copertina; Valentina Mauri ha curato con la solita professionalità il progetto grafico mentre suo fratello Paolo ha seguito tutte le altre non meno importanti fasi del lavoro.
Carla Bertinelli Spotti