Dal recente G7 al cortile di casa, l’unanimismo è tale da far temere che la liturgia delle buone intenzioni circa il contrasto al cambiamento climatico si assopisca nel luogo comune prima di trasformarsi in forza motrice di autentica correzione di rotta. Comunque sia, è finalmente oggetto di diffusa ammissione che gli storici ingredienti del nostro modello di sviluppo – capitalismo, mercato, profitto – esigono per varie ragioni profondi ripensamenti culturali e operativi. Il che non significa tuttavia prestarsi ad alcuna strumentalizzazione ideologica giocata in salsa fanaticamente anticonsumistica e antioccidentale: è proprio un Paese asiatico lontanissimo dai valori liberaldemocratici come la Cina la prima fabbrica del cambiamento climatico. Enorme, e non solo in senso superficialmente emotivo, il ruolo giocato dalla pandemia a dimostrazione di quanto stretto sia il vincolo fra la salute umana e quella dell’ambiente e quanto secolari pratiche di violazione dei suoi sapienti equilibri finiscano fatalmente per ritorcersi contro la specie umana e le sue fragili presunzioni di autosufficienza. Quanto si poteva rapinare è stato rapinato. I rifiuti ci sommergono. Ed è realistico supporre che la spirale dei famosi bisogni indotti recentemente giunta a proporre terme con fanghi di bellezza e aromaterapia per cani e gatti sia vicina a un auspicabile collasso ideativo.
Accettiamo dunque l’idea che la crescita non è infinita come una scala mobile senza stazione d’arrivo. Il capolinea del ciclo attuale c’è, ci stiamo arrivando e stiamo di conseguenza prendendo atto che quello che ci attende è, almeno per un certo periodo, un orizzonte di aspettative decrescenti. Esperienza, a ben guardare, tutt’altro che inedita. S’affacciò nella storia occidentale con la ‘madre di tutte le crisi’ che nel drammatico 1929 letteralmente sbriciolò nelle mani di storici ed economisti quella che ancora appariva l’inossidabile chiave interpretativa del ciclo storico moderno-contemporaneo: l’idea del progresso come ininterrotta ascesa verso stadi di crescente benessere. Nessuno parlò allora di decrescita felice. Forse perché erano più seri di noi. Si rimboccarono le maniche e grazie a ben dosate iniezioni di intervento dello Stato nell’economia, pian piano le ferite si rimarginarono e il cammino della crescita riprese. Guardiamoci anche noi dalla scivolosa affabulazione della decrescita felice. Il breve arco temporale di questa provocazione è da tempo concluso dopo che ha sedotto un pugno di anime belle e qualche intellettuale a pancia abbastanza piena da poter elogiare senza imbarazzo la poesia del digiuno. Altro che ‘felice’. Sarebbe un impoverimento di massa e lo scivolamento lungo il piano inclinato di misere economie di sussistenza. Per fortuna il rischio è tanto remoto quanto antistorica è l’ipotesi cui s’affida: nessuna società, a memoria d’uomo, ha mai volontariamente imboccato la strada della miseria. Nel nostro caso equivarrebbe allo spegnimento violento di preziosi tratti identitari che sono ormai costume diffuso. E parliamo, sia chiaro, di bisogni tipicamente immateriali come la curiosità intellettuale e la sete di sperimentare ‘diversità’ che necessariamente si esprime in forma di mobilità fisica oltre che mentale. Fu non a caso la civiltà occidentale il teatro storico in cui la modernità si è espressa in forma di crescente circolazione di uomini, merci e idee.
La chiave culturale e psicologica per affrontare la sfida dello ‘sviluppo sostenibile’ non può dunque essere quella antimoderna e antitecnologica: un ritorno al buon selvaggio che orgogliosamente brandisce la clava della sua ignoranza come titolo di superiorità rispetto alle vecchie élites politiche e tecnocratiche e ai loro fallimentari bilanci. Aver dato dignità in forma di cibo, scuola, cure mediche, lavoro e ascensore sociale a milioni di persone può definirsi un fallimento? No. Quel che occorre è dunque l’esatto contrario: più cultura, più ricerca scientifica, più tecnologia, più élites depositarie di saperi forti e dunque degne di questo nome. Tocca alla modernità curare la modernità. Nessuno meglio di lei può farlo. E’ illuminante al riguardo l’analogia con la politica. Un sistema politico che poggia sul principio dinamico della libertà può ovviamente sbagliare ma in quanto libero sarà capace di autocorrezione. Allo stesso modo, un sistema economico sociale arenato nelle contraddizioni che il suo lungo ciclo vitale ha inevitabilmente prodotto può e deve essere in grado di superarle ricorrendo al ricco arsenale di strumenti di cui già dispone e a quelli che ha facoltà di costruire.
Decisiva ragione, tornando sul già detto, per guardare con interesse all’ipotesi di sinergie interdisciplinari fra gli atenei cremonesi e in particolare fra il polo umanistico di Santa Monica e il polo scientifico del Politecnico, dopo l’annuncio che la Fondazione Arvedi –Buschini ne promuoverà il trasferimento nell’ex caserma Manfredini. Avrebbe grande valore, anche simbolico, che proprio Cremona, nel cuore di una Val padana martoriata dall’inquinamento e maglia nera d’Europa, concorresse al cantiere del risanamento ambientale con specifiche discipline ed esperienze operative sia nel settore agricolo e zootecnico che industriale.
Senonché, a questo punto del ragionamento, il ‘ma’ che si presenta è gigantesco. L’autocorrezione del sistema non può infatti prodursi in assenza di quella indispensabile leva che è la decisione politica. E qui il terreno si fa campo minato. Troppo facile dire che questo o quel disastro ambientale è da ascrivere al paradigma economico che non va o al capitalismo che è per definizione cattivo. In gran parte dei casi le nostre criticità e i nostri disastri hanno nomi, cognomi, indirizzi e precise appartenenze politico affaristiche a cui risale la gravissima responsabilità di non adottare soluzioni che già da tempo scienza e tecnica hanno messo a disposizione. E’ il caso del trattamento dei rifiuti, largamente in mano alla criminalità organizzata coi risultati che sappiamo. Una vergogna che racconta l’impresentabilità morale di tanta classe dirigente e l’arretratezza che ancora affligge il sistema Italia. Altro che colpa del modello di sviluppo. L’arretratezza, vocabolario alla mano, è il contrario dello sviluppo. Se al pianeta occorre un uomo nuovo, ben diversamente orientato in materia di consumi, non c’è dubbio dunque che anche all’esercizio del potere, specie politico e amministrativo, occorrano figure professionali di ‘nuovo conio’. C’è qualcosa di insopportabilmente retorico, arcaico, miseramente propagandistico, nel linguaggio di tanta politica, lontana anni luce dalla severa concretezza dei processi che è chiamata a guidare.
Basta aria fritta. Al posto di un avvocato che con rotondissimo eloquio ci promette l’imminente avvento di un imprecisato umanesimo, preferiamo uno scarno professionista che ci parla di digitalizzazione, energia pulita, economia circolare, controllo su concimi e antiparassitari attingendo a un’aggiornata mappa dei saperi utili all’impresa. Impresa – modificare il nostro paradigma economico pur salvando benessere e occupazione – che sarà durissima, da affrontare con gradualità e coraggio, abilmente usando la spola del tempo e quella della conoscenza. A nessuno si chiedono miracoli. E, in fondo, il dopoguerra italiano un miracolo lo fece. Lo farà anche il dopo covid italiano? Dipende da molti fattori. Giusta classe dirigente, adeguato consenso sociale intorno alla sfida di un nuovo modello economico. l’Italia del dopoguerra poté contare su entrambi. Ma è pur vero che era figlia di un’altra storia: quando la gente ancora trovava naturale avere più doveri che diritti. Particolare non trascurabile. E, forse, chiave di tutto.
Ada Ferrari