Avevo ragione

5 Ottobre 2024

Ciao, sono la mamma

Questa è una storia misteriosa, fatta di sapori, odori, fili invisibili e conflitti sopiti, affrontati e guariti. Parla di due fratelli. Di una famiglia. Di una magia che sa dividere e poi unire. Paolo viveva a Londra, curava la comunicazione di una casa editrice, sperando di diventare scrittore Viveva in periferia. Abitava vicino alla stazione, dieci minuti da Charing Cross, da Trafalgar Square, dal British Museum e dal Covent Garden. L’Inghilterra gli piaceva: sa di burro, di pasticcini al rabarbaro, sa di vecchio, le sue boiserie vittoriane, la carta da parati a fiori rosa, custodiscono anime antiche. Io quelle anime le vedo. Ci parlo.

Passo alla prima persona, perché lo scrittore onnisciente non sa tutto. Io ho tutte le sinestesie.

Solo io conosco il mio cammino. E adesso ve lo racconto.

Mio padre se ne è andato 18 anni fa. Fu una partenza inaspettata. Ne soffrii moltissimo. Ai tempi, studiavo a Milano: una città fredda, un fiore di ferro, che sa di metallo e smog, non sono mai riuscito ad amarla. Il viaggio dal capoluogo lombardo alla Puglia per salutare il suo corpo fu molto difficile. Vedere la sua anima tranquilla durante la cerimonia funebre, che mi diceva di stare sereno perché non era successo niente di grave, un po’ mi tranquillizzò, ma è difficile
quando la morte ti azzanna come un fulmine a ciel sereno. Ero scosso, anche se mi accarezzava il sole in quella chiesa bianchissima, un sole giallissimo, un raggio di luce che scaldava le resine e le vernici dei banchi in legno, ne sprigionava le fragranze, una luce avvolgente, buona, come il pane appena sfornato. Sapeva di casa. Dei tanti giorni di Natale passati insieme.

In famiglia rimanemmo solo io, mio fratello e mia madre.

Con mio fratello non sono mai andato d’accordo. Due mondi, i nostri, non solo diversi ma addirittura antitetici. Da piccoli litigavamo spesso. Lui arrogante e prepotente, io fragile, emotivo, sensibile, ma pronto a reagire quando mi sentivo con le spalle al muro. Diventavo istantaneamente un predatore dei più spietati. Lo punivo con lunghi silenzi. Lo evitavo. Mi nascondevo. Elaboravo le mie vendette. Lo attaccavo all’improvviso, dopo agguati estenuanti. Lui non tollerava la mia forza interiore, le mie scelte e il fatto che ero andato via di casa molto presto per costruirmi una vita fatta di esperienze nuove, nonostante un’esistenza agiata.

La mia era una famiglia benestante. I miei genitori avevano un conservificio che produceva salse di pomodoro. Papà assaggiava ogni volta la salsa prima di metterla nei vasetti. Sapeva di mani sporche di terra. Lui, mio fratello, aveva ceduto a quel benessere fatto di materia ma che alla fine lo rendeva vuoto, meccanico, arido. Dopo la morte di papà aveva assunto le redini della ditta. Io ero il pazzo, l’irriconoscente, il bambino che inseguiva i suoi aquiloni, vivendo con tante marce di velocità diverse. Volatile. Dispettoso. Strano. Era come se vivessi mille vite in una, la mia e quella di molti altri.

Il mondo è stratificato come la corteccia di un albero. Lo sapete? Come un libro scritto bene. Tutto si muove a frequenze diverse e io le colgo, le collego, le sento. Ne volevo percepire l’unità. Ma ci dovevo lavorare ancora e in questa ricerca faticavo ad accettarlo, non potevo restare da solo.

Lei, mia madre, aveva un carattere un po’ a senso unico, in lei non c’erano sfumature, per lei penetrare il mio mondo era impossibile. Fanatica religiosa non si arrese fino al suo ultimo respiro. Mi amava molto da piccolo, ma avendo assistito ad alcuni miei fenomeni paranormali, ogni tanto in adolescenza mentre guardavo la tv, mi piombava alle spalle, mi posava una mano sulla testa e iniziava la sua litania: Satana, abbandona questo corpo… La lasciavo dire, sapevo che per lei era importante. Ma il suo vero diavolo non era dentro di me. Era la sua paura dell’ignoto, qualcosa che lei non si sapeva spiegare e forse nemmeno io, anche se non ne avevo paura. Per me era tutto naturale.

Gli ultimi tre anni della sua vita ho cercato di sostenerla in ogni modo possibile, nonostante la lontananza. La proteggevo a modo mio malgrado il suo malessere crescesse. Non riusciva a trovare molte scuse per punzecchiarmi. Aveva assistito al mio matrimonio pagano ed era rimasta entusiasta. Era presente alla nascita del suo primo nipote. L’unica cosa che mi rimproverava era che non lo avessi battezzato.

Nell’ultimo anno la demenza di mia madre si era aggravata, anche se fisicamente stava bene. Da quando l’avevamo messa in una casa di riposo, per darle sicurezza aveva mio fratello al suo letto e me in videochiamata dall’Inghilterra quasi tutti i giorni finché serenamente lasciò il suo corpo. Io ero a Londra, prenotai subito un volo per il giorno seguente. Ma la sera sentivo di avere la necessità di un po’ di conforto e così, sapendo bene che non dovevo evocarla, i morti vanno lasciati in pace, bisogna lasciarli andare, iniziai una scrittura automatica per parlare con la mia guida. La mia mano si mosse quasi subito in modo nuovo. Normalmente lo fa con una certa decisione, invece in quell’occasione era leggera, la penna volava lieve, come una piuma nell’aria, come una carezza, un sorriso che si apre piano.

La prima cosa che scrisse fu: “Ciao, sono la mamma”. Ero commosso ed emozionato. Tutto mi aspettavo tranne quell’improvvisata. La salutai e le chiesi come stava. Mi rispose che stava bene. Le domandai se voleva dirmi qualcosa. Disse che a me non aveva nulla da dire perché “tu senti”. Credo volesse dire che la mia capacità di vedere oltre le cose e la materia fosse la mia caratteristica, la mia peculiarità, forse persino la mia salvezza. Non ero diverso. Ero unico. Come lo era mio fratello nella sua specificità. Lo aveva capito, alla fine. Ne ebbi la conferma. Chiesi infatti se voleva dire qualcosa a mio fratello. Lei disegnò due fiori in un vaso e mi scrisse: “Siete due bellissimi fiori della stessa pianta, legati per sempre, ma molto diversi tra loro”.

Un messaggio spiazzante. Mi sembrava che una lancia avesse trafitto il mio cuore, ma non usciva sangue, bensì profumo e amore. Sentivo un profumo amaro e dolce al tempo stesso, come di erba appena falciata, di linfa, di clorofilla. Non so. Non capivo. Ero stupefatto. Ero sorpreso e gratificato. Mi sentivo dentro una pace strappata da una grande guerra, la guerra di una vita intera, una cucitura delicata e invisibile dopo tante incomprensioni e lacerazioni. Intravedevo finalmente l’unità che tanto avevo cercato.

Dovevo affrontare mio fratello. Gli mostrai la mia conversazione,. Nonostante fosse scettico mi ascoltò e mi fece notare un particolare. Un fiore era semplice, il tipico fiore stilizzato che disegnano i bambini. L’altro era senza dubbio una mimosa. Mia madre adorava quei fiori gialli, delicati, fragili, dolci e amari al tempo stesso.

È morta l’8 marzo.

 

Francesca Codazzi

8 risposte

  1. Il tuo solito stile incisivo diventa più dolce morbido e lieve quando parli della madre. Una figura che forse per la sua malattia alla fine ispira tenerezza e accettazione di se e delle proprie peculiarità.
    Brava Franci

  2. É una narrazione delicata.
    La protagonista è descritta con dovizia di particolari.
    Il finale non lo si attende così brusco.
    La mimosa ha lasciato spazio al giorno importante che rappresenta.
    Memento 8 marzo.
    Come sempre complimenti Francesca!

  3. Racconto serrato, ma piacevolmente scorrevole, che dipingendo suoni, gusti, e contesti materiali, ci porta a scalare il nostro essere profondamente unici, ma bisognosi degli altri, fino all’incontro finale, due fiori, uno sfocato l’altro vivido, su cui i suoi fratelli, dalla vita separati, si rincontrato al cospetto della dipartita della madre.

    Brava Franci, mi è piaciuto ed in parte mi sono riconosciuto


  4. Nulla da aggiungere. Una melodia. Come tutto ciò che scrivi.
    Adesso vogliamo leggere un tuo romanzo, col profumo della carta che ci culla!
    Lo aspettiamo presto.
    Un abbraccio

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