Buono, anche se nel complesso non memorabile, questo Beckett di Ferdinando Cito Filomarino (proposto dalla piattaforma Netflix), che pone al suo attivo alcune carte ben giocate: una trama movimentata e coinvolgente (anche se un po’ più di logica e di verosimiglianza non avrebbe guastato), un ritmo altrettanto mosso a cui risponde la buona forma (fisica) di John David Washington, che di fatto non recita: semplicemente fugge, salta da dirupi e parcheggi sopraelevati, barcolla, mena grandi sganassoni. La vicenda mescola fiction e politica, in un’ambientazione piuttosto inedita: la Grecia in preda alla crisi economica e alla corruzione politica, con un intreccio di sordidi interessi fra criminalità comune e un Paese occidentale (non voglio fare spoiler) interessato a che la crisi non finisca e che continui la sottomissione economica e politica del Paese (un tempo) baciato dagli dei.
Il protagonista, responsabile di un incidente stradale dalle fatali conseguenze, sfugge ad una minaccia improvvisa ed inesplicabile attraversando tutto il Paese in sommovimento per il comizio di un leader progressista a cui hanno rapito il figlio.
L’inseguimento avviene senza tregua in un Paese straniero, fra gente incontrata per caso che non conosce neppure la lingua del fuggiasco: il film sfrutta bene il modello di Hitchcock, che ha girato opere memorabili di fuga e inseguimento all’interno di un Paese sconosciuto e di una popolazione tendenzialmente ostile. La solitudine del protagonista risalta dalla minaccia che avverte sospesa sul suo capo (persino lo sguardo di una bambina che lo osserva sulla metropolitana può apparire ostile) o nelle numerose sequenze in cui egli appare accanto a gatti solitari o a cani randagi.
Beckett corre con spettacolare rapidità verso la conclusione, che appare in realtà falsamente consolatoria: il colpo di scena più autentico ed inaspettato del film non consiste tanto nello smascheramento dei felloni e delle loro trame (abbastanza prevedibili), ma nella ragione più profonda delle continue sofferenze e lacerazioni fisiche che rendono il corpo del protagonista una ferita unica e lo fa assomigliare ad un Lazzaro disperato: il suo angosciante rovello interiore si svela nel grido finale che coincide con l’ultima inquadratura.
Vittorio Dornetti