Mancavano venti minuti al suono della terza campanella e, in seconda D, ogni rumore – lo sfogliare delle pagine di un libro, la parola detta all’orecchio del compagno, la risata soffocata per l’ultima barzelletta sui carabinieri – era d’un tratto cessato. Mancavano due giorni alle vacanze di Pasqua e Gianmario Silvestri, professore di italiano e latino prossimo alla pensione ma con lo scrupolo di un docente al primo incarico, aveva inforcato gli occhiali e – al di sopra delle lenti – rivolto uno sguardo indagatore alla classe. Aperto il registro, col dito a uncino aveva iniziato a scorrere cognomi e nomi, seguito da ventotto paia di occhi, desiderosi che quel polpastrello si allontanasse dalla riga loro assegnata, quel tanto necessario per schivare la chiamata. Dopo innumerevoli secondi il professor Silvestri, poggiando i gomiti sulla cattedra e il pizzetto sui pugni chiusi, chiese: «Ci sono volontari?»
Nessuno rispose.
«E allora venga Civati.»
Augusto Civati se lo fece ripetere una seconda volta, prima si alzarsi e avvicinarsi alla cattedra. Il professore gli mise davanti il testo, aperto a pagina centoventitrè: “Coniurati, cum Caesarem interficere statuissent…” e chiese lettura e traduzione. Civati guardò prima la pagina, poi il polso sinistro di Giada Pennino, seduta al primo banco. C’era tatuato un sole giallo ocra, fresco di decalcomania. Lo aveva mostrato soddisfatta ai compagni, di prima mattina; lui, non si era avvicinato. Pensò ai suoi che non glielo permettevano, un tatuaggio, neanche fatto coi pennarelli. Avrebbe voluto la luna per essere complementare a Giada e – nello stesso tempo – con lei necessario. Perché lui era il buio e Giada la luce; lui l’inferno e Giada il paradiso.
«Civati. Quando vuoi iniziare.»
La tortura ebbe fine al suono della campanella delle dieci e trenta, un attimo dopo che Cesare, per bocca di Augusto, balbettasse “Anche tu Bruto, figlio mio”.
La scelta del liceo scientifico non era stata presa bene da suo padre, ma lui aveva minacciato di andare via di casa. Giada – che era forte in matematica e scienze – si sarebbe iscritta all’Alessandro Volta e lui non voleva perderla. Sino alla terza elementare erano stati compagni di banco. All’intervallo giocavano a carta forbici e pietra. Augusto vinceva sempre; Giada lo aveva accusato di barare e chiesto alla maestra di cambiare posto. “Vergogna, imbrogliare una bambina in difficoltà”. Non era vero: lui vinceva perché era bravo. Anche se ogni tanto – raramente, non era poi così necessario – sì, aveva barato. Ma tutti a difenderla, sempre. Era stato relegato all’ultimo banco, manco fosse lui la causa del suo zoppicare. La riprovazione lo mordeva ogni volta che la vedeva avanzare incerta e sedersi in seconda fila, troppo lontano da lui. Augusto però era sicuro: Giada si sarebbe ricreduta sul suo conto. Lui l’amava. Sarebbero stati felici insieme. Giada era il sole. Il suo sole.
«C’è la minestra.» La voce della mamma aveva superato il rumore dell’aspirapolvere. Sulla tavola apparecchiata un piatto coperto, un panino e una banana.
«Papà?»
«È già andato. Raccogli la biancheria.»
Suo padre faceva i turni di notte e dormiva quando lui si alzava per andare a scuola; non c’era già più quando tornava a casa. Augusto aveva bisogno di soldi; la mamma non glieli avrebbe dati. Lei era quella dei no. No tatuaggio: “vai a lavarti”, no palestra: “corri, invece di spendere soldi”, no zaino nuovo: “quello che hai è ancora buono”. Si era chiuso in camera. Sdraiato sul letto, aveva cercato di studiare; poi, prese da sotto il materasso due copie di Playboy rubate al mercatino della prima domenica del mese, era affondato in fantasie dove Giada non era compresa. Ne era emerso che era già buio. Sarebbe uscito, ma era a corto di benzina. Aveva saltato la cena: la madre si era addormentata sul divano.
«Prof, ho la diarrea.» I compagni sghignazzarono. Augusto, col busto piegato e le braccia incrociate sulla pancia, li guardò torvo.
«Civati, ne hai sempre una». Il professore di ginnastica le aveva provate tutte ma, se Civati non aveva voglia, non c’era verso. «D’accordo, sei esonerato. Però resta qui, non allontanarti.»
Augusto non ne aveva alcuna intenzione. Giada – che non faceva mai ginnastica – leggeva, seduta vicino alla finestra che dava sul cortile: la gamba offesa, morta sul pavimento; l’altra, raccolta sotto la gonna a pieghe. Lame di sole attraversavano le veneziane: nelle strisce luminose sembravano volteggiare granelli di finissima sabbia. Sui capelli di Giada si alternavano luci e ombre, e lei era bellissima. Augusto aveva ciondolato tra la tribuna e gli spogliatoi; poi le si era avvicinato.
«Che fai?»
«Ripasso storia. Dovresti farlo anche tu. Domani interroga.»
«Me ne sbatto.»
Giada tornò a calarsi nello studio.
«La storia che ci insegnano è tutta una cazzata. Non ci serve a niente.»
«Però se non la sai ti bocciano.» Alzò gli occhi su di lui, che pareva non ascoltarla: fissava con insistenza un punto preciso oltre le sue spalle, forse qualcosa di là dal vetro.
«Dammi la tua spilla» disse Augusto indicando il fermaglio che lei portava sul risvolto del cappotto.
«A che ti serve?»
«Tu dammela.»
«Dimmi a che ti serve.»
«Tu dammela!» insistette Augusto. Col braccio teso verso di lei muoveva nervoso le dita, senza distogliere lo sguardo dalla finestra. Riluttante Giada si sfilò la spilla. Era un disco bombato di metallo laccato rosso, con incisa una G dipinta di nero. L’aveva trovato in una bancarella a poche lire, e le era piaciuto.
«Non me la rompere» disse porgendogliela.
Augusto distese l’ago nascondendo il fermaglio all’interno della mano destra; carponi, si avvicinò alla finestra. Sembrava procedere al rallentatore. Con pollice e indice della mano sinistra prese qualcosa sospesa nell’aria, delicatamente, e tornò a sedersi per terra accanto a Giada.
«Guarda.»
Un ragno si dimenava, con una zampa attanagliata tra le sue dita. Con estrema calma Augusto poggiò il ragno sul pavimento e, repentino, gli conficcò l’ago proprio al centro del corpo. L’insetto fu attraversato da una scarica elettrica: le zampe si tesero in uno spasmo immediato, poi si raccolsero quasi simultanee su se stesse. E il rantolo cessò.
«Che schifo… Sei un mostro!» Giada, sconcertata, si era allontanata strisciando sul pavimento.
«Mostro, io? E tu come l’ammazzi, con l’insetticida? Sei meno mostro, tu?»
Strisciò come lei per raggiungerla.
«Mi fai schifo. Lasciami stare. Vattene.»
«Guarda che non si è neanche accorto. Col DDT invece è un’agonia. La stessa differenza che c’è tra uccidere con una pugnalata al cuore e con il gas nervino.»
«Oh, la smetti? Ma come ragioni?» Giada si alzò in piedi e fece per allontanarsi. Augusto le afferrò la caviglia della gamba rigida.
«Aspetta, dai, era solo un esperimento.»
Giada scuoteva il piede bloccato, poi smise di opporre resistenza.
Augusto non mollava. «Su, scherzavo.»
Giada portava una scarpa ortopedica nera e grossa ma la caviglia, la sua caviglia, Augusto non l’aveva toccata mai. Bianca come cera, sottile e inerte, tra le sue dita pareva una zampa di capriolo nella morsa della tagliola. Augusto l’aveva visto in un documentario: i caprioli muoiono
dissanguati.
Lasciò la caviglia, lei lo guardò accigliata. «Sei uno stronzo.»
Sostenne quello sguardo di miele indurito fin quando Giada gli voltò le spalle e andò a sedersi in tribuna, nella gradinata più alta, il più lontano da lui. Augusto si diresse alla macchinetta delle merendine; in tasca solo qualche spicciolo. Prese un pacchetto di patatine, la raggiunse, lo aperse e tese il braccio verso di lei.
«Facciamo un giro, domani?»
Giada fece di no con la testa, lo sguardo rivolto ai compagni che rientravano negli spogliatoi.
Augusto aveva insistito. «Andiamo ai fontanili.»
«Non posso.»
«Dai.»
«Ti dico che non posso. Ho da fare.»
«Non ci avete la cameriera?»
«Devo studiare. E prepararmi la valigia. Venerdì andiamo a Rimini. Facciamo la Pasqua lì.»
«Quindi, domani, un giretto… Ho il motorino.»
«No Civa, non ci vengo con te ai fontanili, non l’hai capito? Non vado da nessuna parte con te.
Lasciami in pace, che è meglio.»
«Cosa c’è, non ti piaccio?»
«No, non mi piaci proprio per niente.»
«Tu a me mi piaci. Non sei un ragno. Non ti torcerei un capello, a te. E tu, mi spareresti addosso
l’insetticida?» Ed era scoppiato in una risata sguaiata.
«Ma la smetti?»
«L’avessi schiacciato sotto il piede, non avresti detto niente…»
«Smettila, ti ho detto. Non ci ho voglia di uscire, e comunque devo studiare.»
«Allora ti do un passaggio?»
«No.» Giada sbuffando si era avviata verso l’uscita. I suoi capelli ondeggiavano ad ogni passo. Roba da affondarci la faccia.
Rimasto solo, Augusto aveva tirato fuori dalla tasca della felpa un quaderno. Era di Giada. Gliel’aveva sfilato dallo zaino senza che lei s’accorgesse. I problemi di matematica erano già fatti, perfetto, li avrebbe copiati. Se gliel’avesse chiesto, lei non l’avrebbe aiutato. È stronza e non passa mai neanche gli appunti. Cappuccio alzato e spalle incassate, aveva raggiunto il motorino. La Mercedes nera del padre di Giada era ferma al semaforo. Quell’uomo non sgarrava di un minuto e non spegneva neanche la macchina; lei, stronza, l’aveva guardato mentre stentava ad accendere il motorino. Avrebbe dovuto insistere. E non tirare in ballo ancora la storia del ragno. “Non ci ho voglia”, “e
comunque”. Giada era interessata a lui. Ne era certo, non si sbagliava, doveva solo fare attenzione a quello che le diceva. Trovare argomenti interessanti, discorsi convincenti, non stupidi esperimenti. Doveva riflettere, prima di parlare. Collegare bocca e cervello, come diceva Silvestri. Lui davvero non le avrebbe torto un capello, anzi i capelli glieli avrebbe accarezzati piano, facendole venire quei brividi di piacere che – lo sapeva – ti prendono quando una mano gentile te li sfiora, a cominciare dall’attaccatura del collo, proprio dietro le orecchie, e con le dita te li stira dolcemente, carezzando prima la nuca, poi la testa. Glieli porterebbe tutti su una spalla, quei capelli che le arrivano al culo. E se stessero ai fontanili seduti sull’erba, all’ombra dei salici, a uno a uno le cercherebbe le doppie punte, e gliele aprirebbe tutte. Perché lei le doppie punte ce le ha. Lui – dal banco dietro di lei – le vede, le doppie punte.
Aveva seguito a distanza la Mercedes, sino al cancello che immetteva in un viale delimitato da siepi di roselline selvatiche. Più avanti, villette a schiera distinte e riservate, come i loro abitanti, una uguale all’altra: soggiorno e cucina a pianterreno, zona notte al piano superiore. Cantina e garage; portico davanti e giardino sul retro. Nella prima a destra, quella sull’angolo, abitava Giada. Scavalcando la cancellata, camminando svelto rasente i cespugli, in dodici passi raggiungerebbe l’angolo. La seconda finestra del primo piano, quella con le tendine azzurre, è la sua camera. Potrebbe tirare dei sassolini contro i vetri, come nella scena di quel film in bianco e nero che aveva visto una volta: lei si affaccia, sorride e apre la finestra; lui balza dalla siepe e si piazza sotto il davanzale con un mazzo di rose rosse in mano. Lui non aveva le rose.
Era rimasto un’ora invano, in attesa di vederla passare tra le tende. A casa aveva aperto il libro di storia senza leggerne una pagina. Gli era mancato il coraggio di chiamarla ed era pure rimasto a secco di benzina. Cazzo, tempo sprecato.
L’indomani Augusto marinò la scuola e si diresse al fiume, a tirare sassi a pelo d’acqua. Voleva battere il suo primato che era di dodici salti, sfuggire a una probabile interrogazione, ai saluti e agli auguri prima delle vacanze – insopportabili – ed evitare un altro no di Giada. Scelse con attenzione alcuni ciottoli piatti e lisci, se ne riempì le tasche e camminò lungo l’argine, per raggiungere il posto migliore, dove il fiume è profondo, il fondo sabbioso e l’acqua riposa silenziosa prima di raggiungere più oltre una cascatella e riprendere il percorso. Non riuscì a battere il suo primato. Aveva Giada ovunque: nella mano che non trovava la giusta angolazione per il tiro; nella testa che ritornava alla caviglia stretta tra le sue dita, nella pancia che gorgogliava al pensiero di lei sulla spiaggia. Prese un grosso masso e lo lanciò con rabbia, si tolse le scarpe e le calze e mise i piedi a mollo nell’acqua gelida fino a quando non sentì più le dita, e il freddo non gli procurò una strana
sensazione di bruciore, e questo divenne insopportabile.
Al pomeriggio suo padre ancora non era tornato. Sul letto, le braccia incrociate dietro la nuca e lo sguardo oltre i vetri della finestra, fisso su un muro ingrigito dallo smog, s’immaginò ai fontanili con Giada e le fantasie erano diverse da quelle del giorno prima: gli facevano venire voglia di fare, di vederla, di chiedere scusa e meritare una gentilezza da parte sua. Chiudendo gli occhi, provò addirittura una sensazione di benessere, di cosa giusta. In camera dei genitori aprì il comodino della mamma e cercò in fondo. Nascosto, tra reggiseni e mutande, un portafoglio. Prese venti euro. Spinse il motorino sino alla pompa più vicina, due isolati avanti. Poi saltò su e si diresse verso casa di Giada. Voleva restituirle il quaderno; si sarebbe scusato e l’avrebbe ringraziata per gli esercizi. E salutata, prima che partisse. Troppo lunghi sei giorni senza vederla.
«Non c’è». Al citofono la madre non aveva lasciato speranze.
La stronza era andata al cinema con i suoi compagni. Con gli altri stronzi. Altro che “devo studiare”. Si era chiuso in camera, cuffie sulle orecchie e musica a palla: la sera e l’indomani si preannunciavano piacevoli come una cimice nel piatto. Le vacanze, un abisso vuoto, inaccettabile e immenso.
Dopo una notte trascorsa a pensare a Giada – ai suoi capelli, al suo zoppicare (ma perché cazzo i suoi non l’hanno fatta curare?) ai suoi no, alle sue bugie – aveva preso il motorino, imboccato la provinciale, poi deviato verso una strada in rifacimento che delimitava la linea ferrata. La segnaletica indicava divieto di accesso causa lavori, ma questi erano fermi da anni, il luogo veniva usato come discarica e l’erba si stava mangiando l’asfalto. A piedi aveva superato il filo spinato e raggiunto la ferrovia. Si era incamminato lungo i binari. Ogni tanto si chinava e poggiava l’orecchio per sorvegliare il sopraggiungere di un treno. L’aveva visto fare in un film. Voleva arrivare al ponte di pietra che sovrastava la statale. Era il suo punto di osservazione preferito. Visto da lontano, sembrava quello delle costruzioni di legno con cui giocava quand’era bambino. Mezz’ora di cammino: un falso piano che gli piaceva percorrere saltellando tra sassi, traverse e rotaie. Raggiunto il ponte, asciugato il sudore con la manica della felpa, si era appollaiato sul muretto, proprio al centro, il punto più alto. Da lì dominava un panorama incoerente: qui e là un campanile a interrompere la pianura – con i suoi terreni squadrati, i canali irrigui e querce altezzose a delimitare i confini; all’orizzonte le montagne del Bergamasco, sfumate dal velo di umidità di una mattina senza sole e senza vento; sotto di lui un misto di cascinali diruti, terreni incolti, capannoni industriali dismessi. In mezzo, un groviglio di strade s’intersecavano, alcune a doppia corsia, altre semplici, in un disegno perfetto. In lontananza il raccordo che conduceva all’autostrada tracciava un cerchio che somigliava alla ghiera di un orologio; la statale e la provinciale, invece, sembravano il segno dell’infinito o meglio un nastro, di quelli che le femmine annodano tra i capelli. E la coda del nastro si allungava proprio sotto di lui: due fasce grigie, uguali e diritte, separate da una linea bianca tratteggiata.
“Non vado da nessuna parte con te” gli aveva detto Giada. Come dire: fuori dalla mia vita. “Mi fai schifo”, gli aveva detto. E anche “Lasciami stare”. Come dire: non osare avvicinarti a me. Se escludeva Giada dalla sua mente non ci sarebbe stato più nulla a cui pensare, nulla da fare, nulla per cui sperare e vivere. Sarebbero rimasti il vuoto della sua stanza, il rumore dell’aspirapolvere e i bucati da raccogliere a scandire le giornate; le riviste rubate ai mercatini o al vecchio edicolante; i giri solitari in motorino; il parco dove sostano i tossici con i loro cani bavosi. L’oratorio e i film, ogni anno gli stessi.
“Devo studiare”. Eh no, questo no. Bugiarda. Lo dice sempre suo padre, che essere troppo buono con le donne è da fessi. Lui però vorrebbe essere buono con Giada, se solo lei fosse gentile. Non le torcerebbe un capello, se lei non lo prendesse in giro. Ma non può permettersi, né lei né nessun altro, di prenderlo in giro. Si distende sui binari, poi di colpo si alza. Che ci sta a fare lì, ad aspettare cosa?
Si sporge oltre il muretto e guarda giù, l’asfalto scuro e un fermento di rettangoli colorati che sfrecciano in direzione del lago, dei monti, dell’autostrada. Del mare. Si sporge di più, e gli va il sangue in testa; dondola con il busto come fosse l’altalena del parchetto sotto casa. Strizza gli occhi.
Gli gira la testa.
Afferra un sasso, attende il passaggio di una macchina nera e mira al parabrezza. L’auto, colpita in pieno, perde il controllo, il vetro è in frantumi, tampona altre auto che sbandano e si scontrano, qualcuna finisce la sua corsa contro il guardrail, altre sopraggiungono, schivano, inchiodano, si schiantano una sull’altra come tessere di un domino. E così ancora, e ancora. Sulla statale è il caos. Tra clacson e frastuono di lamiere, lontano, si sente un urlo liberatorio.
Licia Tumminello
5 risposte
Il tono serrato ed incalzante mi ha fatto presagire qualcosa di non buono alla fine del racconto. Ma forse per Civati una vera purificazione.
Si percepisce sulla pelle il disagio interiore di Augusto fin dalle prime righe del racconto. È palpabile ciò che lo porterà a sfogarsi contro il mondo con violenza .
Ineccepibile racconto. Sempre attenta alle descrizioni dell’ambiente e coinvolgente nel parlare delle emozioni dei personaggi con i loro intercalari e frasi appropriate alla loro età. Complimenti Licia. Molto apprezzabile anche questo racconto
Si fiutava la tragedia da lontano….anche se speravo in una virata conclusiva.
Nel leggerti c’è sempre il piacere del viaggio. Brava Licia.
Impeccabile lo stile , preciso nel presentare gli ambienti e nel farci cogliere i sentimenti dei due giovani protagonisti , soprattutto del povero ragazzo che purtroppo, non riesce ad accettare la realtà né a superare la sua delusione.Secondo me, uno spiraglio di più attaccamento alla vita , la presenza di qualche altro valore , avrebbe reso più forte il ragazzo nel procedere nel labirinto dell’esistenza.Comunque il racconto coinvolge anche se poi lascia un po’ di amarezza.Brava Licia