Le interviste possono essere esclusive, stimolanti, avvincenti. Oppure loffie, insignificanti, noiose. Quella del quotidiano La Provincia a Salvatore Mannino, direttore generale dell’Ats Val Padana, è una pagina di giornale sprecata. È un’intervista inutile. Non firmata, pubblicata il 28 febbraio, è uno spottone pubblicitario. Flebo di parole e paroloni, pedissequo adeguamento alla narrazione mainstream sul tema medicina e territorio, dà l’impressione d’essere un ricostituente a sostegno dell’Ats. Cocktail di testosterone e vitamine, studiato per curare la debolezza procurata dalle critiche dei cittadini alle risposte insoddisfacenti dell’ente ai loro bisogni, si rivela uninnocuo placebo. Non fa danni. Non fa nulla. Una delusione.
L’assistenza proattiva, la destrutturazione della sfera relazionale, l’approccio perequativo, l’endoprotesica, i driver finanziari, i pivot territoriali, la dematerializzazione che Mannino cita con lo stile sicuro del manager coi controfiocchi, non trasformano Paperino in Shreck.
In compenso, per usare lo stesso lessico del direttore generale, destrutturano o, in alternativa, dematerializzano le parti intime dei lettori.
Serpentone lungo circa duecento chilometri, l’Ats si occupa della sanità territoriale, dai medici di base ai veterinari, dall’epidemiologia alle vaccinazioni, dalle farmacie all’igiene. A molto altro. Vigila e comanda sulle province di Cremona e Mantova. Da Rivolta d’Adda a Felonica. La prima, al confine con i territori di Lodi, Bergamo e Milano. La seconda, con quelli di Ferrara e Rovigo. Due ore e mezza di viaggio attraverso culture e storie diverse, spesso contrapposte. Sostenere che sul regno di Mannino non tramonta il sole è esagerato. Non è Carlo V e neppure imperatore. Sta nella terra dei Gonzaga, è il gran duca della sanità cremonese-mantovana, che è tanta roba. Uno sproposito in termini di potere. Con il sottofondo della sempre verde In ginocchio da te, del giovane attempato Gianni Morandi, l’intervista si colloca una spanna sopra il soffietto, pronta per entrare nella categoria dei mantici, equivalente di un’espressione meno elegante e più creativa, utilizzata in ambiente giornalistico per definire articoli di questo tipo. È un trattato di politica sanitaria con inserite delle domande che non domandano. Non incalzano l’interlocutore. Lo assecondano. Non sono un tappetino. Assomigliano a una stuoia. Molta forma, poca sostanza, se per sostanza s’intende concretezza con progetti precisi e indicazioni di chi fa che cosa, dove lo fa e quando lo fa. Poi costi e finanziamenti. Sotto il vestito niente. Quasi niente. Comunque poco.
«Sul solco già tracciato a livello nazionale e regionale, è necessario oggi un approccio perequativo, con un livello d’attenzione in più sull’assistenza primaria, la prevenzione e gli stili di vita, la diagnosi precoce; questo aiuterà ad invecchiare in buona salute, riducendo la prevalenza di patologie croniche, con migliore qualità della vita e migliore tenuta del sistema economico e di welfare». È la scoperta dell’acqua calda che, con il valore aggiunto del già citato approccio perequativo, muta in acqua calda di classe. In acqua di colonia. In Acqua di Giò. Pot-pourri di ovvietà confezionate male, l’intervista non aggiunge nulla a ciò che già non sia stato detto e ridetto nei mesi scorsi. Alcuni passaggi riecheggiano tesi e rilanciano concetti sostenuti dagli irriducibili rompicoglioni un po’ sinistri che, per indole e per genetica, contestano da anni l’attuale modello di sanità pubblica. Non bastano pochi flash sul potenziamento dell’assistenza territoriale, sull’incremento di quella domiciliare, sull’integrazione dei vari servizi per indurre applausi. Se poi il titolo virgolettato dell’intervista proclama «Il sistema sanitario motore dello sviluppo», allora non è una meschinità o un pregiudizio politico o ideologico sostituire i mancati applausi con il dissenso palese.
«È da questa consapevolezza che dobbiamo ripartire: come la salute individuale è il bene più prezioso per ciascuno di noi, la salute pubblica è un capitale strategico e va tutelata (collettivamente) più di ogni altra cosa». La salute non è un bene individuale e la salute pubblica non è un capitale strategico. Entrambe non sono quotate in borsa. La salute di ogni cittadino è un diritto sancito dalla Costituzione che va salvaguardato senza aggettivi e calcoli. È una priorità priva di se e di ma. Se la salute diventa una cosa, allora è inevitabile che in particolari contesti sociali, storici, emergenziali generali e personali, gli individui siano costretti a scegliere o a mediare tra salute e occupazione, tra salute e produzione, spesso con sindacati e datori di lavoro alleati tra di loro. Il binomio teoria e prassi non è solo argomento assai dibattuto dai filosofi, ma anche traduzione delle idee nella pratica. Nell’intervista questo principio è marginale, condizione ottimale per giungere alla sagra delle buone intenzioni, le quali lastricano la via dell’inferno.
«ll PNRR e i modelli di sviluppo della rete territoriale prevedono un deciso potenziamento della digitalizzazione e della telemedicina in ottica assistenziale ed organizzativa». Mentre si attendono i Re magi che con un’overdose di chip e di app convertano la medicina territoriale in spaziale, i cremonesi continueranno a respirare un’aria tra le peggiori d’Europa. L’Osservatorio epidemiologico dell’Ats, direttamente coinvolto nella questione, in più occasioni è stato al centro di alcune critiche, non ultime quelle di Paolo Ricci ex direttore dell’Osservatorio stesso (Cremonasera, 28 febbraio), ma nell’intervista il problema è ignorato. Dimenticati anche i medici di famiglia, la cui carenza mette in ginocchio il servizio di medicina di base. L’Ats non è la principale imputata per questa Caporetto, ma non può chiamarsi fuori dalla disfatta. Chiedere a Mannino lo stato dell’arte sul disastro non avrebbe stonato. Forse, sì.
«Signori, benvenuti al Fight Club. Prima regola del Fight Club: non parlate mai del Fight Club. Seconda regola del Fight Club: non dovete parlare mai del Fight Club». Chiaro, No?
Antonio Grassi