Ormai i mondi della politica e della finanza riconoscono che la combustione delle fonti fossili per soddisfare l’inesauribile fabbisogno di energia dell’attività antropica, con le sue emissioni di inquinanti e climalteranti ha prodotto problemi alla salute dell’uomo da un lato e dall’altro sta causando disastrosi cambiamenti del clima. Cambiamenti del clima dovuti alla rottura degli equilibri che la Natura aveva raggiunto in milioni di anni nella composizione della fascia dei gas serra con il compito della termoregolazione del pianeta per la sua vivibilità.
Aspetti sanitari. Per l’inquinamento, si sapeva da molti anni che il particolato, ossia PM10 e prodotti vari della combustione delle fonti fossili, unito a quello prodotto da eventi naturali come i vulcani, era molto dannoso per la salute umana. Gli studi scientifici, inascoltati, ormai non si contano più, così come regolarmente inascoltate sono le annose raccomandazioni dell’OMS per il dimezzamento dei limiti di legge in vigore. OMS che stima in circa 8 milioni, lo 0,1% della popolazione mondiale, i decessi attribuibili all’inquinamento atmosferico. Un’ecatombe che colpisce, soprattutto, i Paesi a basso reddito per il maggiore utilizzo di combustibili a basso costo come legna, carbone e residui organici in impianti privi di sistemi di filtraggio dei fumi.
Alcuni dati epidemiologici a riprova (https://www.resmedjournal.com/article/S0954-6111(15)30087-1/pdf). I livelli di rischio: per i soggetti residenti in aree urbane, rispetto a quelli che risiedono in zone suburbane, è maggiore del 19% per la rinite allergica, del 14% per la tosse, del 30% per l’espettorato e del 54% per la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). Premesso che in 25 anni (1985-2010) si è registrato il raddoppio delle malattie respiratorie, la progressione della loro incidenza è la seguente: dal 3.4% al 7.2% degli attacchi d’asma; dal 16.2% al 37.4% le riniti allergiche; dall’8.7% al 19% dell’espettorato frequente; dal 2.1% al 6,8% della BPCO.
Per quanto riguarda l’Italia, oltre ad altri autorevolissimi studi, nel giugno 2015 è stato presentato il Progetto VIIAS (Valutazione Integrata dell’Impatto dell’Inquinamento atmosferico sull’Ambiente e sulla Salute) finanziato nel quadro delle iniziative del Centro Controllo Malattie (CCM) del ministero della Salute dove vi si poteva leggere che, «Nel 2005, …, sono risultati attribuibili all’esposizione al PM2.5 della popolazione 34.552 decessi (il 7% della mortalità per cause naturali osservata in Italia), su 527.193 complessivi in tutta Italia, su una popolazione al di sopra dei 30 anni stimata in 40.077.488 individui. Di questi il 65% (pari a 22.485 decessi) sono stati stimati tra i residenti del Nord. Il tasso di mortalità più alto si è avuto in Lombardia: 164 ogni 100.000 residenti»,
Circa l’aspettativa di vita ed il tasso di mortalità legati al solo PM2,5, sempre secondo lo studio VIIAS, (https://www.viias.it/dataviz/), per l’anno 2020 appena trascorso dava valori davvero inquietanti, quanto inattesi.
Aspetti climatici. Numeri preoccupanti, quelli dell’inquinamento dell’aria, tuttavia allontanati in parte da qualche anno dalla nostra attenzione dai 5 scenari RCP ipotizzati dal V° Rapporto (2014) dell’IPCC (Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico dell’ONU) indicanti una possibile estinzione di massa entro 70-80 anni. La sesta della storia del pianeta.
Anche per questa apocalittica prospettiva la responsabilità principale è della combustione delle fonti fossili ed in genere dell’attività umana. L’emissione dei gas serra (CO2, CH4, NO2, ecc.), infatti, sta facendosi minacciosa. In particolare, la CO2, l’anidride carbonica, che, per la sua alta concentrazione in ppm (numero di particelle per milione di parti totali) nella sfera dei gas serra e per gli anni di permanenza (tra i 100 e i 120) è il maggiore responsabile dell’aumento delle temperature. La CO2 è, assieme al vapore d’acqua, l’immancabile prodotto di risulta del processo chimico della combustione. Per questo gas gli scienziati hanno individuato il livello della concentrazione “di non ritorno” stimato nelle 450 ppm, oltre il quale si ritiene ingovernabile la situazione, anche per la impossibilità di quantificare a quel punto che ruolo avranno sia la riduzione dell’albedo (riflessione della radiazione solare) che lo scioglimento del permafrost (dispersione in atmosfera del metano, fino a 72 volte più efficiente del CO2 nel trattenere l’infrarosso, il calore). Oggi, 2021, siamo già oltre le 416 ppm.
A questo proposito, visto che il tasso medio di crescita annuo della concentrazione di questa CO2 in atmosfera dal 2016 al 2020 è stato, in progressivo aumento, di 2,6 ppm, ricordate le già menzionate 416 ppm raggiunte nel 2020 e le fatidiche 450 ppm da evitare per contenere un aumento delle temperature entro i +2° C in soli 10 anni, la crescita media non dovrebbe superare le 3,4 ppm l’anno. Pur tenendo conto che si è trattato di due sole giornate, una giustificata preoccupazione viene però dalla lettura della variazione in un anno dei dati all’Osservatorio hawaiano di Mauna Loa nei giorni 2 e 4 marzo scorsi: rispettivamente di 4,27 e di 5,18 ppm,
Un’economia da riscrivere. La “crescita” economica deve cambiare strada, la vecchia economia regolata dal Pil, nella totale dimenticanza delle immodificabili leggi della Fisica e della Natura, è un “lusso” i cui costi sono ormai insostenibili e sono tutti a carico del futuro, del domani.
Dopo averlo ideato nel 1934 per monitorare, seppure grossolanamente, lo stato dell’economia a seguito della “Grande depressione”, il suo ideatore, Simon Kuznets premio Nobel 1971 per l’economia, del Pil ebbe anche a precisare che per questo indicatore economico «bisognava tener conto delle differenze tra la quantità e la qualità della crescita, dei suoi costi e dei suoi benefici». Ma quell’avvertimento non è mai stato ascoltato. Sarebbe stato di intralcio alla “economia dei consumi”, alla ricerca della sua “crescita” senza limiti etici e a prescindere dalla sostenibilità ambientale.
La comunità internazionale, finanza, economia e “decisori politici”, pare abbiano compreso la necessità inderogabile di affrontare la gravissima situazione per dare speranza ai nostri giovani.
Il SEEA, System of Environmental-Economic Accounting (Sistema di contabilità economico-ambientale) è una struttura che raccoglie e confronta dati economici e ambientali per fornire una visione più completa delle interrelazioni tra l’economia e l’ambiente, quando portano benefici per l’umanità. È dell’altro giorno la notizia dell’avvio, su sua richiesta, di una consultazione generale globale in sede ONU sul cambio dei parametri usati tuttora per il calcolo del Pil, il Prodotto interno lordo, il vigente cinico indicatore, peraltro grezzo e scorretto, della crescita economica di un paese. (https://seea.un.org/news/building-back-better-natural-capital-accounting-green-recovery )
Impossibile non citare però il virtuoso atteggiamento dell’UE. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione, ha dichiarato: «La missione del Green Deal comporta molto di più che un taglio di emissioni, si tratta di creare un mondo più forte in cui vivere. Dobbiamo cambiare il modo in cui trattiamo la natura. E’ per questo che il 37% di Next Generation EU (Recovery Fund) sarà speso per i nostri obiettivi del Green Deal. Molte attività mondiali si sono fermate durante il lockdown eppure il pianeta è diventato sempre più caldo. Sappiamo che è necessario il cambiamento e sappiamo che è possibile. Il Green Deal è il nostro piano per realizzare questa trasformazione. Vogliamo diventare il primo continente neutro entro il 2050, ma non ce la faremo con questo status quo, quindi dobbiamo essere più rapidi». 37% di circa 750 miliardi di euro … 270 miliardi per il Green Deal europeo, di cui il 28%, circa 74 miliardi, per l’Italia perché si decarbonizzi. Inutile nasconderli, sono molti i dubbi sull’efficacia del loro impiego: l’efficienza delle istituzioni, la rapidità e la costante visione olistica delle scelte, la capacità, nella totale coerenza con i fini del Green Deal, di un possibile rilancio dell’economia con i restanti 209 miliardi.
Ritorna così alla mente l’illuminato discorso pronunciato il 18 marzo 1968 presso l’università del Kansas dall’allora candidato alla Presidenza egli Stati Uniti, Robert Kennedy: «Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta».
Un giorno l’ex direttore generale dell’ONU, Ban Ky-moon, disse: «non esiste un “piano B”, perché non esiste un pianeta B», o come altri hanno detto: «o ci salviamo tutti insieme o non si salva nessuno». 1968, 2020, non si è fatto molto per cambiare! Ora c’è un conto da pagare.
È però ancora possibile permettere di sperare in un futuro ai nostri giovani. Abbandonando faziosità e personalismi, dobbiamo impegnarci tutti, e tutti insieme, con il massimo impegno. È un dovere morale.
Benito Fiori per l’associazione ABC-Alleanza Bene Comune-La Rete