La prima uscita pubblica del Presidente del Consiglio è stata un intervento alla Corte dei conti. In quella sede Mario Draghi ha detto che i giudici devono fare controlli intransigenti e rigorosi. Ma ha aggiunto che questi controlli devono avvenire in un tempo ragionevole. La Corte dei conti controlla gli eventuali danni erariali subiti per atti compiuti dai pubblici dipendenti. E’ una delle magistrature italiane, insieme con l’amministrativa, la civile e la penale.
Ma torniamo al tempo ragionevole. Le nostre magistrature purtroppo hanno tempi non confrontabili con gli altri grandi Paesi europei. In Italia – dove comunque i tempi della giustizia si stanno accorciando – ci vogliono 7 anni e 4 mesi per avere una sentenza civile, esattamente il doppio della Francia e della Spagna e tre volte il tempo della Germania. Tempi analoghi nelle altre magistrature europee.
Tutto ciò, oltre a creare un danno diretto alle attività coinvolte nelle inchieste, produce altri effetti collaterali. In primis scoraggia l’assunzione di responsabilità e la conseguente firma degli atti amministrativi da parte dei dirigenti pubblici per il timore di finire sotto inchiesta. Primeggia nelle fattispecie dei reati di accusa dei pubblici amministratori l’abuso d’ufficio. Questo reato è stato definito da Sabino Cassese, emerito giudice costituzionale ed ex ministro, ‘fumoso e dai contorni indefiniti’. Tanto che nel 99 per cento dei casi finisce con l’archiviazione. Che senso ha un reato che ha una probabilità più che remota di essere provato? Se a questo aggiungiamo la proverbiale inefficienza italica della pubblica amministrazione, la miscela diventa devastante. Si paralizza l’attività economica.
Possiamo misurare gli effetti dell‘ingerenza delle magistrature nella vita economica del paese?
Certamente sì, con un metodo induttivo. Diciamo che la cosiddetta supplenza della magistratura in politica comincia nel 1992 con l’avvio di Mani pulite. In quell’anno l’Italia era la quinta potenza economica mondiale, davanti al Regno Unito e con un Pil pro capite reale molto vicino a quello tedesco. Dopo trent’anni siamo ormai usciti dalla top ten e il nostro reddito pro capite è allineato ai Paesi dell’est Europa e molto distaccato dalle ‘locomotive’ Francia, Germania e Stati del nord. La favola delle api di Mendeville scritta nel 1705 è ancora strettamente attuale. In un alveare apparentemente felice viveva uno sciame di api organizzato in una società ben ordinata e regolata dalle leggi. Non vi erano né tirannia né democrazia che genera disordini. La loro vita era molto simile a quella degli uomini. Milioni di api lavoravano a produrre tutto ciò che serviva alla prosperità di cui godeva l’alveare. Ma a malapena la metà delle api ne beneficiava, in un sistema in cui comparivano disparità sociali. Questi insetti vivevano come gli uomini ed eseguivano tutte le loro azioni. La morale di questa favola, che consiglio a tutti di leggere, è la seguente. Abbandonate le vostre lamentele, o mortali insensati. Invano cercate di conciliare la grandezza di una nazione con la probità. Solo i folli possono illudersi di gioire dei piaceri e delle comodità della terra, di vivere bene e a proprio agio e nello stesso tempo di essere virtuosi. Abbandonate queste vane chimere. Occorre che esistano la frode, il lusso e la vanità, se vogliamo goderne i frutti. La fame è senza dubbio un terribile inconveniente. Ma come si potrebbe senza la fame provare appetito, nutrirsi e crescere? Si scopre che il vizio è vantaggioso quando la giustizia lo epura, eliminandone l’eccesso e la feccia. Ma il vizio è tanto necessario in uno Stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda una nazione prospera. Per far rivivere la felice età dell’oro, bisogna assolutamente, oltre all’onestà, riprendere la ghianda che serviva di nutrimento ai nostri progenitori.
Francesco Papasergio