Ci sono i perdenti di successo. Al cinema, Doc McCoy in Getaway di Peckinpah con Steve McQueen omaggiato da Vasco Rossi in Vita spericolata. In politica Marco Pannella, il migliore. Matteo Renzi, eccellenza della categoria. Luigi Di Maio sveglio quanto basta per sopravvivere alla catastrofe. Nel nostro territorio, Carlo Cottarelli, che si reca al Quirinale con zainetto e trolley. Che s’imbarca nella spending review. Che il Pd candida al senato a Cremona, ma prende una scoppola da Daniela Santanchè.
Ci sono perdenti per destino, karma, sfiga. Per Dna (leggere articolo di Giuseppe Pigoli, in Vittorianozanolli.it, 5 maggio). Folco Lulli e Yves Montand in Vite vendute di Clouzot. Cheyenne in C’era una volta il West. Molti reduci del Sessantotto. Quelli che scrivevano sui muri: «È solo l’inizio, continuiamo la lotta!» Terminata la vernice, hanno scoperto la comodità e la convenienza di occupare la poltrona dei contestati e usufruire dei relativi privilegi. Hanno sostituito la bomboletta dei colori con il mastice e sono rimasti incollati allo scranno.
I perdenti simpatici. Paperino primo assoluto. Antonio Razzi da Oscar.
I perdenti e basta. Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant nel Sorpasso. Letizia Moratti, che sognava una marcia trionfale e si è svegliata con una marcia funebre.
Poi i vincenti, ma perdenti. Pseudo unti dal signore, s’illudono d’essere tre metri sopra il cielo. Miopi non colgono la distorsione ottica che li fa apparire nell’iperuranio.
Bravi a vendere la propria immagine, si autocertificano immuni alle critiche. Incapaci a gestire il confronto con gli avversari, alla prima contestazione partono per la tangente. Sbroccano. Usano la clava.
Rottamato il vecchio, ma ancora valido suggerimento, medice cura te ipsum, vedono la pagliuzza nell’altrui occhio e non la trave nel proprio. In cattedra ad ogni stormir di fronde, spesso privi di abilitazione all’insegnamento, impartiscono lezioni a destra e manca.
Sacerdoti della verità e del dovere, usano l’aspersorio senza risparmio, pronti a benedire infedeli, invece di se stessi, come la logica suggerirebbe. Illuminati dallo Spirito santo o da una lampadina, al buio si perdono e inciampano sulla comunicazione.
La politica con la P maiuscola non è il loro mestiere. Anche con la p minuscola non ci pigliano, ma si considerano Kissinger e Gromiko.
Tra costoro, in alcune occasioni, compaiono Roberto Poli (Pd), Enrico Manfredini (Fare Nuova la città-Cremona attiva), Lapo Pasquetti (Sinistra per Cremona), capigruppo di maggioranza nel consiglio comunale di Cremona. Pochi giorni fa l’ultimo loro transito in questa compagnia.
«La becera arroganza e la insopportabile supponenza – hanno scritto – sono quasi sempre frutto dell’ignoranza (nel senso etimologico del termine: non conoscere, non sapere), elemento questo molto grave in generale, ma che diventa intollerabile in coloro che vorrebbero fare politica con la P maiuscola, come accade per il quartetto dei consiglieri Malvezzi, Fasani, Simi e Ceraso» (Cremonasera, 2 maggio).
Che è successo? Per il rinnovo del Consiglio di amministrazione di A2A sono state presentate tre liste. Una dei Comuni di Milano e Brescia che insieme detengono il 50 per cento e un pelo delle azioni della società. Un’altra delle Sgr (Società gestione risparmio) e degli investitori istituzionali. Per semplificare, dei fondi di investimento. Una terza targata Aem, Cogeme, Inarcassa ed Enpam, quella dei nostri campioni.
Il 28 aprile i soci hanno spedito nel consiglio di amministrazione i rappresentanti degli azionisti di riferimento e dei fondi di investimento e lasciato a casa i candidati di Aem, Cogeme e il resto della squadra.
Detto fatto, è partito un duello rusticano a colpi di comunicati tra Forza Italia e Cremona Viva da un lato e centrosinistra compatto dall’altro. Un gioco delle parti che ha oltrepassato i toni accesi del normale scontro politico.
Il quartetto di minoranza ha cavalcato ed accentuato la sconfitta.
Il terzetto Poli, Manfredini e Pasquetti, tre teste di un cerbero guardiano della maggioranza, ha difeso e giustificato la Waterloo.
«Per la prima volta – hanno spiegato i tre – dunque questi territori, fuori Milano e Brescia, in sinergia con mondi del privato, hanno potuto competere con una lista sostenuta da fondi, per portare un componente di loro espressione diretta nel cda della maggior multi-utility italiana. Questo fatto è il dato politico importante e dimostra che, nell’operazione di partnership prima e di fusione poi tra Lgh e A2A, era ed è salda e forte l’intenzione di creare vere politiche industriali e sinergie lombarde importanti e significative» (Cremonasera, 30 aprile).
L’assalto al cielo è fallito. E se è comprensibile che la cilecca al primo colpo non è la fine del mondo, diventa irritante e ridicola l’enfasi con la quale è stata motivata e legittimata la batosta.
Poche storie: si concorre alla nomina di un consiglio di amministrazione di una società per entrarci. Per stare sulla tolda di comando. Per condividere scelte e decisioni. Fallire l’obiettivo è una sconfitta. Non c’è discussione. Punto.
Perdere ed esultare per avere presentato la lista, dato politico importante è la volpe e l’uva. È patetico, deprimente. Distopico.
«La seconda lista di minoranza – precisano i tre dogmatici difensori del flop – (quella comprendente Cremona), che nelle interlocuzioni e accordi precedenti con i vari attori avrebbe potuto aspirare al 7%, si è fermata invece poco sotto il 5% del capitale sociale, perché alcuni soci, che dalle interlocuzioni avute avrebbero potuto votarla, non l’hanno votata» (Cremonasera, 2 aprile).
Confessare che si è stati fottuti da potenziali alleati è tremendo. In politica è da espulsione, Cartellino rosso.
Ma tutto questo non è una novità, tanto meno una sorpresa. È una conferma. È il risultato della capacità-incapacità di negoziazione dei rappresentanti del nostro territorio. Della mancanza di carisma. Della propensione alla superficialità. In questa occasione specifica, degli uomini del Pd.
Del laissez faire caro ai liberisti, alle multiutility, a tanti, giustappunto piddini di casa nostra. Ai troppo buoni, pronti ad accettare le compensazioni ambientali e credere che A2A sia una Life company. A scordare che per la multiutility il territorio vale in funzione degli utili che, secondo gli analisti, può generare in termini di investimenti e di fornitura di servizi, in relazione al tempo e alla facilità di attuare i progetti programmati.
Un cane non muove la coda per nulla. Le società per azioni non investono in cultura, sport, giovani per la gloria. Se lo fanno è marketing. Belletto per acquisire consenso.
In borsa prevalgono gli affari sulla politica. I soldi non hanno odore. Non sono di destra, sinistra, centro.
In borsa decidono bilanci, perdite, profitti, dividendi. La capitalizzazione della società e il delta rispetto all’anno precedente, non sono da meno.
In borsa, per chi vive di sintesi, il numero in fondo a destra nel foglio Excel conta di più della politica, molto di più. E se per mantenerlo positivo è necessario non spegnere l’inceneritore e costruire impianti di biometano in aree ambientalmente già compromesse non ci sono esitazione e tentennamenti: avanti tutta.
Piaccia o no e con buona pace dei tre capogruppo di maggioranza, il Pd non può autoassolversi dalle proprie responsabilità rispetto all’intera vicenda Lgh-A2A. A maggior ragione non può evitare di assumersi la paternità della figuraccia rimediata sulle nomine del nuovo consiglio di amministrazione della multiutility.
Non può scaricare su altri le interlocuzioni da operetta e gli accordi scritti sulla sabbia. Non può sfuggire al sospetto che nel tradimento dei patti ci sia lo zampino di qualche Comune che con Cremona condivide il medesimo armocromista, amante del rosa pallido, smunto. Bergamo, anche lei azionista di A2A, è tra gli indiziati.
Se così stanno le cose, il Pd, invece di scrivere roboanti e incazzosi comunicati contro la minoranza, riprenda a fare politica. Non importa l’altezza della P. Per ora è ancora vincente, ma perdente. Se prosegue su questa strada sarà perdente e nient’altro. Un po’ di coraggio e meno politichese potrebbero aiutare. Un amministratore pubblico bravo, quando serve, dice no e batte i pugni sul tavolo. Ma ci vogliono le palle.
Antonio Grassi
Una risposta
Il PD non si è ancora liberato dal retroterra dogmatico che ha sempre caratterizzato i militanti ai tempi della politica “classica”. Poi noi comuni mortali abbiamo atteso (invano) l’avvento di un grande partito laico (???) e riformista (???????). E invece, come dice Grassi, il PD celebra la propria decadenza abbandonandosi ad un politichese vuoto e, talora, astioso…ci manca solo che chieda la comprensione dell’elettorato; penso che confonda il sorgere del sol dell’avvenire con il suo tramonto. Peccato.