A fronte delle preoccupazioni delle donne cremonesi sul destino di alcuni reparti dell’Ospedale e della mobilitazione di alcune organizzazioni di malati e pazienti, il confronto tra chi vorrebbe rivedere l’organizzazione dell’assistenza oncologica in Ospedale e chi invece sostiene la validità dell’esistente rischia di essere un falso problema, con la concreta possibilità di perdere di vista l’obiettivo comune, cioè quello di garantire la migliore assistenza possibile ai malati.
Il caso specifico che sta appassionando la città è quello relativo all’Area Donna, un ampliamento delle competenze della ‘vecchia’ Breast Unit, riconosciuta quest’ultima come parte di un sistema autorizzato e monitorato a livello regionale.
In realtà il monitoraggio sembra un punto critico, dal momento che esistono numerosi indicatori del sistema (volumi di attività, rispetto dei tempi, numero degli interventi…), mentre invece si è un po’ perso di vista quello che dovrebbe essere l’obiettivo principale di ogni intervento medico e chirurgico, cioè la possibilità di guarigione. Sembra banale affermare che guarire è la speranza dei malati e ottenere la guarigione è l’impegno dei medici. Se poi non è possibile guarire, magari ci si può accontentare di non morire, anche questo un obiettivo sul quale non si può non essere d’accordo. Conoscere quindi la mortalità dei pazienti seguiti da una struttura sanitaria, potrebbe costituire un buon indicatore dell’efficacia dell’assistenza. E’ pur vero che la mortalità dipende da numerosi fattori: l’incidenza nella popolazione, la presenza di co-morbilità, l’età del paziente, la gravità della patologia, lo stato di avanzamento del male, l’adesione agli screening…….. e tuttavia è innegabile che il dato sulla mortalità rappresenti un dato molto importante, specie se viene impiegato per confrontare strutture simili di territori contigui.
Secondo i dati ufficiali dell’ATS Valpadana, a Cremona la mortalità per tumore della mammella è più elevata rispetto alla media dell’intero Paese, più che nell’Italia del nord, più che a Mantova, più che a Crema, pur se in quest’ultima realtà l’incidenza sembra maggiore.
La situazione è invece diversa per i tumori della sfera genitale femminile, dove invece la mortalità per tumore ovarico è più bassa a Cremona rispetto al resto del Paese, mentre per quanto riguarda il tumore dell’utero non si riscontrano grandi differenze.
E’ anche su questi dati che dovrebbe essere basato ogni ragionamento, indipendentemente dall’assumere posizioni favorevoli o contrarie alla riorganizzazione prevista all’ospedale di Cremona.
Purtroppo però c’è un altro problema, forse ancora più serio: i dati di cui disponiamo (consultabili sul sito dell’ATS Valpadana) non sono recentissimi e fotografano quindi una situazione verosimilmente non aggiornata. Siamo alle solite: da un lato l’assenza di dati corretti rende difficile qualsivoglia tentativo di analisi oggettiva, dall’altro, trattandosi di malattie gravi, ci si trova ad affrontare una più che giustificata risposta emotiva da parte della popolazione che, a fronte degli annunciati cambiamenti complessivi dell’organizzazione ospedaliera cremonese, si sente giustamente disorientata e confusa. Questa situazione riconosce cause antiche e, vista l’autoreferenzialità dei precedenti vertici della sanità cremonese, un paio di domande sembrano legittime: può un sistema sanitario essere migliore di chi lo governa? Può una organizzazione sanitaria essere migliore di chi la dirige? Alla attuale dirigenza ospedaliera va dato atto quantomeno di essersi posta alcune domande e di aver condiviso alcune risposte.
A proposito di domande, sarebbe bello che l’ATS Valpadana fornisse, oltre ai dati epidemiologici aggiornati, anche quelli relativi al numero delle donne cremonesi che hanno deciso di non appoggiarsi all’ospedale di Cremona e di farsi curare altrove. Un ulteriore elemento su cui riflettere.
Pietro Cavalli