GLI EDITORIALI DI ADA FERRARI
Non è forse un caso che nel giro di pochi giorni siano comparsi su questo Blog due notevoli editoriali – Giuseppe Pigoli e Francesco Papasergio – che, pur parlando di cose diverse, convergono nel denunciare crescenti vulnerabilità e contraddizioni delle nostre democrazie. Per carità, non che la parola democrazia abbia perso il suo smalto. Grazie a incontrovertibili ragioni di fatto, continua a scandire, come un potente bastione morale, la divisione del mondo fra il regno della libertà e quello della tirannide. Ma basta tuttavia passare a un più analitico sguardo per convenire che sì, assistiamo in effetti al “crepuscolo” di democrazie tenute sotto schiaffo dalle imperiose e incontrollabili esigenze delle nuove economie di mercato. Di chi la ‘colpa’ del fenomeno? Dell’economia troppo forte o della politica troppo debole?
Un primo tentativo di risposta non può che guardare alla grande data periodizzante degli anni ottanta del Novecento. Fu allora che, uscito di scena per fallimento manifesto il modello sovietico delle economie di piano, il sistema del libero mercato vinse e stravinse convincendoci che tale fosse la sua saggezza innata da poter guidare al meglio l’andamento economico senza più bisogno di alcuna cabina di regia istituzionale o indirizzo politico. Ne conseguì il progressivo indebolimento dei meccanismi istituzionali che, pur con alterno successo, non avevano smesso di guardare all’interesse collettivo e al bene comune come alla principale bussola per orientarsi nelle grandi scelte strategiche. Ma guai a banalizzare il tutto trasformandolo in semplicistica contesa fra una Politica, per definizione virtuosa custode della salute democratica e un’Economia per definizione malvagia e a tutto insensibile fuorché ai propri interessi.
Alla voce Economia, tanto per cominciare, qualunque dizionario spiega che è l’insieme di attività, istituzioni e strumenti il cui scopo è soddisfare e regolare tutti i nostri bisogni. E’ dunque la condizione primaria di sostenibilità e continuità della vita collettiva. Niente male, direi. Del resto il nome -di origine greca e quindi coniato dal popolo più intelligente del pianeta- nasceva dall’incastro di due parole di notevole peso specifico: la casa, intesa come consistenza patrimoniale di famiglia e la regola, cioè il sistema di norme che garantisce la razionalità e l’armonia di qualsiasi attività umana. La divaricazione intervenuta rispetto all’orizzonte originario di un’economia domestica e, per estensione, collettiva è lampante. I ‘beni di famiglia’ non sono più risorsa armonicamente estendibile alla collettività in ragione delle condizioni del sistema produttivo ma sempre più simili a un ‘bottino’ concentrato in ristretti circoli e frutto di speculazioni finanziarie per lo più sganciate dal lavoro produttivo tradizionalmente inteso.
Delle due originarie componenti dell’antica parola, una si sta dunque perdendo per strada: restano i beni, cioè la roba, ma viene meno il ‘nomos’ cioè la regola. E, posto che non c’è libertà senza regole, un mercato privo di regole del gioco non può che convertirsi nel sistema autoreferenziale e spesso predatorio di risorse umane e ambientali che stiamo pericolosamente sperimentando. Esperto di mezzi tecnici ma sempre più indifferente riguardo al senso ultimo del proprio operare e a fini strategici di più alto valore, rischia in effetti di condannarsi al peggiore degli esiti: un’insensatezza fatalmente autodistruttiva.
Non avendo, ovviamente, la più pallida idea circa una futura via d’uscita, mi limito a qualche riflessione sul trascorso storico della questione. Primo: il virtuoso mix fra democrazia, industrializzazione ed economia di mercato è uno dei massimi artefici dello sviluppo della civiltà occidentale. Ha spartito benessere, istruzione, dignitose cittadinanze al posto di precedenti e mortificanti sottocittadinanze, è stata la maggior leva storica di promozione umana e libertà personali. Seconda considerazione: il fare, il produrre, il dominare l’ambiente, il concepire la vita e l’economia come un incessante sforzo di superamento e miglioramento delle condizioni precedenti sono da millenni iscritti nel dna della civiltà occidentale, con le relative potenzialità evolutive e rischi involutivi e degenerativi . San Benedetto, vedi caso il patrono d’Europa, creando la Regola di vita monastica che scandisce il giorno fra lavoro e preghiera ha di fatto regalato all’Occidente la prima forma di uso razionale del tempo. Cosa ovviamente lontanissima dal famoso ‘il tempo è danaro’ ma a suo modo sua lontana progenitrice.
Terza considerazione: nell’esperienza occidentale l’economia è storicamente stata il principale luogo genetico delle moderne democrazie. Sostenere il contrario è praticare il più pericoloso e accecante anticapitalismo ideologico. Il percorso che fece dello sviluppo economico un potente costruttore di democrazia, oltre che di profitto, è stato lungo e tortuoso ma ha in fine messo capo, e non occorre ricordare come e perché, a quel capitalismo ‘dal volto umano’ che si spinse a ideare un nuovo umanesimo industriale in grado di fare del lavoro non solo uno strumento di profitto ma anche di soddisfacente realizzazione personale e umana del lavoratore.
E’ quasi imbarazzante richiamare queste cose in una fase storica tanto diversa. Quasi fossimo in presenza di un’incoerenza temporale che confina nel passato la ‘modernità’ delle esperienze più progressiste e illuminate e ora ci impone una specie di Medioevo di ritorno che dispone di riserve di schiavi, licenzia con un sms, blinda immeritevoli plutocrazie di rendita speculativa e moltiplica la platea delle sottocittadinanze di ritorno. Non mi addentro nel ginepraio di cause e concause del processo. Ma è tuttavia innegabile che risulti anche dalla crescente incapacità della politica di indirizzare e governare i grandi processi. del mondo contemporaneo. Vedi globalizzazione e costruzione di quell’Europa comunitaria che per ora naviga a vista spesso illudendosi di compensare con l’arroganza burocratica la palese insignificanza politica. Sì, temo proprio di dover convenire con Giuseppe Pigoli il quale, disperando della rinascita della Politica, confida nel forzato ravvedimento dell’Economia. Sarà lei che, messa di fronte all’insostenibilità sociale e ambientale del modello di crescita fin qui seguito, non potrà che disporsi a cambiarlo.
Che vengano scaricate sulle potenzialità del sistema economico le speranze via via deluse dall’incapacità del sistema politico non è cosa storicamente nuova. Regolarmente si ripresenta nelle fasi di profonda sfiducia nella politica. Non a caso emerse nell’immediato dopoguerra, quando un’Europa atterrita dagli abissi di orrore in cui l’impazzimento ideologico della politica aveva trascinato l’umanità, pensò che la sua inaffidabilità andasse ‘punita’ riducendone il ruolo e affidando le sorti collettive al mondo dei produttori economici e dei tecnocrati, meno parolai, meno ideologizzati e dotati di un concreto saper fare ben più utile alla società moderna. Non se ne fece nulla. La questione resta pertanto inevasa: possiamo fare a meno della politica? A chi è in grado di rispondere volentieri giro la paradossale domanda.
Ada Ferrari
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5 risposte
Impossibile fare a meno della politica…ma pure l’economia e’ essenziale. Ecco allora spiegato il perche’ le 2 devono agire contemporaneamente e congiuntamente, verso un unico obbiettivo. Nessuna imboscata per intenderci…trasparenza,solidarieta’ e capacita’ nel rinnovare e migliorare le idee.
Lusingato del suo interessamento ai miei scritti, mi dichiaro completamente d’accordo aggiungendo una breve chiosa: a mio parere è la classe economica che ha pensato di fare a meno della politica relegandola al ruolo di mera rappresentanza di facciata. Errore madornale! Dettato non solo da un inquietante senso di onnipotenza, ma anche dalla mancanza di una visione futura; i politici non sono i soli ad essere inadeguati ai compiti che devono affrontare!
Gentile professoressa, non crede che, visti i costi elevati che la politica deve affrontare, e visto che non sono più previsti i finanziamenti pubblici, i partiti si avvalgano dell’appoggio delle realtà economiche come avviene nell’ambito dello sport? Veri e propri Sponsor, come quelli che campeggiano sulle divise delle squadre, sulle magliette dei tennisti, sugli accappatoi dei nuotatori e così via. Guardi nel nostro piccolo chi paga le campagne elettorali e come si muovono i nostri politici: sostenuti economicamente, anche in modo esplicito, hanno alle spalle una potenza che può contare in opere che vengano incontro alle varie esigenze. E partiti dal peso poco consistente che trovi agganciati al centrodestra in alcune situazioni vagano da una parte all’altra per non perdere la considerazione degli Sponsor più solidi e prestigiosi. In questo la politica è legata all’economia a doppio filo.
Le sue considerazioni sono più che sensate ma riguardano normali anche se discutibili pratiche di scambio fra partiti e sponsor economici che esulano dal fenomeno di cui ho scritto, riguardante quel capitalismo contemporaneo post industriale e sempre più finanziarizzato , che pare aver smarrito visione strategica e soprattutto quei vincoli etici che motivano il mio riferimento a precedenti esperienze di “umanesimo industriale”. Globalizzazione e finanziarizzazione dell’ economia sono o non sono all’ origine di una complessiva disumanizzazione del mondo del lavoro (e non solo)? Il tema del mio intervento è questo. Grazie per avermi dato occasione di esserne più esplicita
Buonasera Ada, credo che il problema vero sia la disumanizzazione del concetto di lavoratore che da qualche lustro si fa sempre più acuto. Il globalismo finanziario non ha bisogno di lavoratori nel senso stretto del termine – e costruttivo professionalmente – rispetto al capitalismo di produzione. La sostituibilità dei lavoratori nella finanza – che alla fine sono legati ad algoritmi non al saper fare – è quasi assoluta, le basti pensare allo sviluppo senza criterio e alla ripetitività delle economie digitali (che alla fine sono solo una compravendita di dati e poco più, in pratica la vera miniera d’oro per gli speculatori) degli ultimi anni. L’estremizzazione di questo capitalismo che non arricchisce il mondo produttivo sono quegli adolescenti i quali, senza particolari talenti, influenzano elettori, politici e istituzioni grazie a enormi capitali accumulati in pochi mesi. Mediamente vanno a votare ma non conoscono neanche le basi del diritto costituzionale e sono convinti che il presidente della Repubblica sia anche il capo del governo. 20 anni fa si sognava la ricchezza giovanile almeno giocando a calcio, oggi facendosi pagare per consigliare vestiti. Il tempo estremizzerà questo divario fino al punto in cui il lavoro verrà soppiantato da “managers” i quali, bene o male, saranno impostati tutti nello stesso modo e raramente saranno in grado di gestire problemi che potrebbero esulare anche di poco dalla loro impostazione. La persona intesa come valore sarà sempre meno importante. Saluti