Com’è normale che accada, nel corso della storia di una città si accumulano nel tempo molti strati relativi alle varie fasi storiche vissute. Uno degli esempi più belli (tra i tanti) è la parte storica della splendida città di Tivoli, dove le basi delle colonne romane sostengono spesso delle bifore medievali che, a loro volta, si concludono con dei capitelli cinquecenteschi. Sono case concepite come dei pazienti moderni di una sala operatoria, dei novelli Frankestein di pietre e mattoni, semplicemente stupendi, piene di protesi storiche.
Altre volte le funzioni di alcuni edifici cambiano in toto, oppure vengono semplicemente traslate in nuovi edifici, com’è corretto che sia, perché il tempo scorre per tutti, sia per le persone che per le pietre. Un esempio meraviglioso a Cremona è la zona degli ex monasteri cittadini (via Bissolati e zone limitrofe), poi divenuti caserme, oggi sedi di università prestigiose grazie alla lungimiranza e intelligenza del compianto professor Massimo Terzi.
In entrambi i casi si tratta di metamorfosi o cambiamenti dei tessuti edificati che, anche in un’ottica ecologica, sono sempre da preferire alle nuove distruzioni e ricostruzioni.
La nostra città ha avuto un ospedale sin dal 1441, naturalmente non passato inosservato da Antonio Campi che lo definiva ‘la più grandiosa opera pubblica a carattere sociale del secolo XV sorta in Cremona’. Com’è giusto che sia, infatti, i toni relativi alle fondazioni di istituzioni così importanti per la salute cittadina, complice il loro ruolo sociale, sono sempre stati molto elevati. Oggi quell’ospedale è come un insieme di tessuti (le pareti in muratura) svuotate della propria funzione.
Molti secoli dopo, accadde lo stesso per l’Ospedale Maggiore attuale, quello inaugurato negli anni Settanta, che si era costituito come un vero e proprio esempio di modernità, allora definito come ‘il più moderno d’Italia’. E anche il Maggiore è un piccolo Frankestein, a suo modo: nelle sue fondamenta furono infatti gettati alcuni mattoni del vecchio Ospedale di San Facio. Diversamente dall’edificato di Tivoli, ovviamente, tali mattoni permangono invisibili, oppure sono visibili solo nella nostra fervida immaginazione.
A rivederlo ancora oggi, cioè mezzo secolo dopo, a livello stilistico il Maggiore sembra completamente avulso dal contesto cittadino, tanto la sua apparenza razionalista stride con le casette delle urbanizzazioni contigue, cioè stride con l’edificato dei larghissimi tetti di coppi alla cremonese, con le sue basse casette multicolore. Sembra il grigio ospedale di una città tedesca completamente bombardata, o di un centro minore americano. Questo gigante è vetusto in molte delle sue parti visibili, con grandi problemi funzionali al suo interno. Uno tra i tanti, sperimentato, il sottodimensionamento della sala di attesa del Pronto Soccorso, neanche degna delle dimensioni della saletta check-in di un volo di un turboelica. Chissà quale effetto deve aver fatto, ai visitatori e pazienti degli anni Settanta, questo gigante, grigio e buono.
Gli stessi toni entusiastici che si rinvengono nella storia di questi due momenti cittadini, si ritrovano nei commenti relativi al bel progetto vincitore del concorso per il nuovo ospedale cittadino. Tanto che si sono create differenti scuole di pensiero. Vi sono tuttavia alcune considerazioni importanti che si dovrebbero esaminare, per esprimere un giudizio lungimirante su tale, terza per Cremona, operazione entusiastica e monumentale: esse concernono nuovamente la funzione e la forma.
Lasciando da parte lo stato della medicina quattrocentesca, dopo tutto ciò che è accaduto con la pandemia, cioè con la produzione del virus ad opera di comprovati finanziamenti statunitensi presso un laboratorio cinese, poi diffuso in ogni parte del globo, pare che si sia ritrovata la necessità di una sanità ‘a misura d’uomo’ cioè (oseremmo dire) di quartiere, non delle ‘grandi navi’ che atterranno improvvisamente nel prato di un territorio.
Un centro all’avanguardia che cura certe patologie importanti ma che lascia da parte, in questo caso spontaneamente, tutto il resto, cioè tutti quelli che ogni giorno statisticamente occupano sempre maggiormente il Pronto Soccorso, non sembra un’idea geniale da un punto di vista logistico e funzionale. E se dobbiamo proprio fare i pignoli, pare che la medicina moderna si stia indirizzando verso una sorta di personalizzazione estrema della cura, del farmaco, più che verso una generalizzazione della stessa all’interno di astronavi comunitarie.
Oggi esistono possibilità di leggere in pochi minuti le sequenze genetiche, da molti anni anche grazie a quel grandioso scienziato e creativo che fu il dottor Kary Mullis, e quindi di andare a curare con molecole ‘personalizzate’ le patologie che ci affliggono sempre maggiormente… in quanto membri, noi stessi, di popolazioni sempre più anziane. Come per l’energia del futuro, che probabilmente sarà un mini-reattore nucleare per ogni abitazione o gruppo di case, così immaginiamo che un giorno un dispositivo ‘da casa’, per il quale nascerà sicuramente un nuovo Steve Jobs, sarà in grado di analizzare che cosa nelle nostre sequenze genetiche non funziona, per proporre immediatamente la sintesi della molecola necessaria. Lo space filling tra molecole sarà aiutato (come già accade) dall’intelligenza artificiale per mezzo della chimica computazionale.
Chi scrive immagina, forse utopisticamente, la presenza di piccole realtà di pronto soccorso e di analisi medica, sparse nel territorio, che possano agire tempestivamente e che permettano di gestire in modo diverso e innovativo, l’approccio al malato. Una sorta di nuovo umanesimo che mette al centro la vita del paziente. Quest’ultimo (gioia infinita) può passare quindi la maggior parte del tempo a casa, al lavoro o nel suo quartiere, senza la depersonalizzazione del grande centro ospedaliero, per bello che sia, o perché ricorda il quartier generale della Apple in California (pure bellissimo) (nella foto centrale il progetto di Norman Foster). Ma Cremona non è Cupertino e la morfologia di quello che sarà il nuovo ospedale forse farà detonare una reazione identica a ciò che accadde all’Ospedale Maggiore negli anni Settanta, atterrato come un ‘fuori scala’ nel suo quartiere adottivo… Semplicemente perché ancora oggi (ossia cinquant’anni dopo) lo stesso Maggiore non è stato neanche minimamente digerito dal proprio contesto urbano. Capiterà lo stesso per l’astronave di Mario Cucinella?
Il fatto che nel nuovo ospedale verranno gestite le luci nella stanza di un paziente, secondo le abitudini dello stesso, ricorda alcuni alberghi di Manhattan (dove queste cose purtroppo si bloccano sempre) più che un’innovazione degna di una prospettiva medica a lungo termine. Tra essere curato in un grande albergo o in casa, chiunque sceglierebbe la casa: purché vi sia certezza della cura!
Se è vero che le nostre auto diventeranno volanti, allora è inutile costruire dei mega aeroporti. Se è vero che la medicina sta prendendo la strada della personalizzazione della cura, che senso ha costruire un colosso architettonico in forma di ospedale?
Oppure no?
Alberto Faliva
Fernando Cirillo