Ed eccoci approdati nelle sapienti mani di Mario Draghi. Mentre il ‘lieto fine’ di un largo appoggio parlamentare si delinea con crescente chiarezza, qualche evidenza su cui ragionare è già a portata di mano, purché rinunciamo a quel modo di guardar le cose ossessivamente schiacciato sui fatterelli degli ultimi cinque minuti che troppo a lungo ci ha fatti Indugiare nell’infinitamente piccolo. L’avvento di Draghi al timone dell’esecutivo dà oggi al Paese la preziosa occasione di tornare a ‘pensare in grande’. A condizione , beninteso, che il sistema dei partiti e la società intera abbiano un adeguato soprassalto di consapevolezza. Non basta infatti che il medico sia il migliore, occorre che il malato possa -e soprattutto realmente voglia- rispondere alla cura. Ma torniamo alle evidenze: siamo davvero di fronte al clamoroso fallimento della politica, sostituita in extremis dalla tecnocrazia? Si e no. Ma, per dirla tutta, più no che sì. Difficile dar per spacciata la più impervia e machiavellica delle arti se proprio lei, in forma lucidamente spregiudicata, ha consentito a Renzi, con un patrimonio elettorale stimato al 2%, di mettere tutti in scacco, far saltare il banco e disegnare quel transito dall’Italia di Grillo e quella di Draghi che nemmeno il più spericolato visionario avrebbe osato sperare. Cosa concluderne? La politica è una leva che, azionata da un’idea, riesce a sollevare il mondo. Già, ma ci vuole l’idea. Indisponente e cinico fin che si vuole, Renzi l’idea ce l’ha. E, a ben guardare, ce l’ha da un pezzo. Da quando ha costretto l’Italia a guardarsi allo specchio, con le sue tare, i suoi ritardi e le sue incancrenite criticità, da quando ha liquidato quell’antiberlusconismo parruccone e isterico su cui tanta pseudo cultura di sinistra ha campato per anni, da quando ha posto l’urgenza delle riforme al centro dell’agenda politica giocandosi l’osso del collo sulla nota scommessa referendaria. La sconfitta conseguita non cancella una storia personale a tratti discutibile ma certamente non sciocca né vile né ha cancellato quella denunciata crisi del sistema Italia che solo una politica coniugata ad adeguate competenze tecniche può oggi permettersi di affrontare. Non dimentichiamolo: la politica è anche tecnica. I La Malfa e i Fanfani erano politici o tecnici? Erano politici perché avevano in testa un’idea di paese ed erano tecnici perché sapevano dove mettere le mani per realizzarla. Lo stesso non può dirsi del pachiderma Pentastellato che pur con convincenti eccezioni -Patuanelli in testa- ha parcheggiato nelle Camere una valanga di dilettanti allo sbaraglio moralisticamente convinti che nelle parti in commedia la politica sia la ‘buona’ in quanto amica del popolo e la tecnica sia la ‘cattiva’ in quanto collusa con le famose élites. Non necessariamente dunque quantità di eletti e qualità vanno a braccetto e disporre di enorme forza numerica non convertibile in forza politicamente risolutiva può condurre nel pantano trasformista cui abbiamo assistito sia nel tandem 5 Stelle-Lega che in quello 5 Stelle-Pd. Tema dolente, dolentissimo quello del Pd. Se la sprovvedutezza è perdonabile negli acerbi Pentastellati, non lo è infatti in un partito navigato e blasonato che proprio nei giorni del suo centenario ha messo a segno uno degli autogol storicamente più imbarazzanti della sua storia. Nelle mani di Zingaretti, tiepido notabile senza gli spigoli e le passioni del leader di razza, ha perso un’occasione storica: insegnare agli scomposti grillini la giusta ’postura’ da tenere verso la politica che è, anzitutto, un calibrato mix di disciplina intellettuale e pragmatico realismo. Da educatore, quale poteva essere, il Pd, aggrappandosi alla forza numerica dei grillini, ne è invece diventato compiacente ostaggio. E la pagherà. Quale forza destabilizzante si sia ormai scatenata nei rapporti fra i partiti ma soprattutto al loro interno è già evidente. L’irruzione sulla scena politica di un ‘corpo estraneo’ della statura di Draghi sta generando processi di scomposizione e ricomposizione del quadro politico che, adeguatamente assecondati, potrebbero costringere culture politiche sbiadite e senescenti, nel cui vuoto irruppero i 5 Stelle, a rigenerarsi a vantaggio proprio e del Paese. Ad alleanze governative puntellate da eterogenee sommatorie numeriche potrebbe finalmente subentrare la forza aggregativa e seduttiva di un’idea condivisa di Paese. Draghi, conservatore illuminato e dunque liberaldemocratico, parla chiaro: rieducare al senso e al valore del rischio d’impresa, del coraggio individuale, della voglia di essere i protagonisti del proprio riscatto: offrire occasioni da cogliere più che securizzanti mancette di Stato in cambio di un lavoro che non c’è. Parole sante. Ma un sospetto ci guasta la festa: cosa potrà il migliore dei Governi se il suo strumento è lontanissimo dall’essere il migliore dei Parlamenti?