I frutti della gestione della sanità pubblica sono sotto gli occhi di tutti: in dieci anni (2010-2019) gli ospedali italiani hanno perso 25.000 posti letto, 42.000 dipendenti, 37 miliardi di finanziamenti e, tanto per confrontarci con altre realtà, hanno ormai il 30% di posti di ricovero in meno rispetto alla media europea.
Dopo aver lasciato scappare i buoi e subìto pesantemente gli effetti della pandemia, la riforma della sanità prevista dal PNRR (DM 71) ha inteso rivedere la sanità del territorio, senza occuparsi, se non marginalmente, degli ospedali. Il risultato di questa revisione dell’organizzazione sanitaria consiste in realtà in un poderoso sforzo edilizio per la costruzione/adattamento di edifici da adibire a Case di Comunità, Ospedali di Comunità, Centrali Operative Territoriali. Purtroppo, al di là della importante componente edilizia, la riforma sembra non curarsi di gravi problemi assai difficili da gestire: se non ci sono medici ed infermieri in numero sufficiente per gestire la normalità degli ospedali e dell’assistenza territoriale, non si capisce con quale personale queste strutture potranno funzionare. Dall’altra parte non sembrano per nulla chiare le modalità di integrazione e coordinamento del territorio con gli ospedali, anch’essi in sofferenza, anche ma non solo per mancanza di personale. Resta infine la dimensione utopica di un progetto che non specifica in che modo la sanità del territorio e quella ospedaliera potranno collaborare, con il rischio reale che ciascuno possa andare per la propria strada.
Ci attendono quindi tempi nuovi e del tutto imprevedibili, nei quali forse ognuno si dovrà organizzare per conto proprio: chi ricorrerà alla sanità privata (assicurazioni, mutue private, cliniche..) certamente penserà di trovarsi in una condizione di vantaggio. Nessuno però pensa che quando l’assistenza sanitaria diventa business deve fornire degli utili e nessuno sembra accorgersi che quando qualcuno ci guadagna, facilmente qualcun altro deve perdere qualcosa. Purtroppo non solo in termini economici.
In questo contesto si colloca il progetto del nuovo ospedale di Cremona, che, per quanto è dato di sapere, dimezza l’attuale numero di posti letto e prosegue in una direzione che speravamo la pandemia avesse fatto dimenticare.
Oggi però è importante sottolineare una buona notizia fornita dalla stampa locale che, riprendendo dichiarazioni dei vertici dell’Ospedale, assicura che sono state concesse all’attuale struttura ospedaliera le autorizzazioni per la realizzazione di tre raparti ad elevata specializzazione: chirurgia toracica, neuroradiologia, chirurgia vascolare.
A questo punto non possiamo che apprezzare la buona volontà e le buone intenzioni degli attuali vertici dell’Ospedale e soprattutto auspicare che i risultati annunciati non restino solo sulla carta. L’attivazione di questi reparti potrà contribuire ad una ulteriore crescita professionale e scientifica dell’ospedale di Cremona, ad una sempre maggiore professionalità degli operatori, ad una attrattività di certo superiore all’attuale. Il tutto a garanzia di un miglioramento dell’assistenza alla popolazione. L’altra buona notizia da sottolineare è che l’approvazione regionale riguarda la struttura attuale, altrimenti detto Ospedale Maggiore di Cremona e non il previsto nuovo ospedale in scala ridotta.
Resta ovviamente il nodo della attribuzione formale di DEA di secondo livello, una condizione che ormai ha favorito tutte le provincie della regione ad eccezione di Cremona e Lodi per le quali, a questo punto, sarebbe necessaria una forzatura della legge nazionale, che ne prevede l’istituzione in base al bacino di utenza (da 600.000 a 1.200.000 abitanti). Però chi vive sperando….
Pietro Cavalli