Giuseppe Cappi politico della conciliazione è il titolo del convegno in programma oggi dalle 9,30 nella sala Fabrizio De André del Comune di Castelverde. Sono previsti gli interventi di Matteo Morandi dell’Università di Parma, Alessndro Tira dell’Università di Bergamo, Francesco Nuzzo già sostituto procuratore generale della Corte d’appello di Brescia, Giovanni Maria Biondi già vicepresidente della Provincia di Cremona, Fabio Amadini assessore alla Cultura del Comune di Castelverde, Ada Ferrari già docente universitaria alla Statale di Milano.
Pubblichiamo un capitolo, di stringente attualità, tratto dal libro intitolato ‘Giuseppe Cappi in assemblea costituente’, scritto da Francesco Nuzzo e pubblicato di recente.
Sull’ammissione delle donne in magistratura.
Sull’accesso delle donne in magistratura, l’Assemblea Costituente palesa aperture alla modernità e chiusure per risalenti pregiudizi. A guardar bene le cose, gli oppositori seguono un canovaccio non dissimile da quello sperimentato quando Lidia Poët (1883) e Teresa Labriola (1912) chiesero di essere iscritte rispettivamente all’Ordine degli avvocati di Torino e all’Ordine degli avvocati di Roma, ma le domande non furono accolte. In particolare, la Corte di cassazione piemontese, nel respingere il ricorso rientrante nella sua competenza, espresse una motivazione aspra e stigmatizzante, frutto di una concezione patriarcale e gerarchica dei rapporti sociali, imperniata sulla c.d. imbecillitas sexus e incapacità muliebre a esercitare l’avvocatura. Idee vecchie e ornate della vestitura curiale, che sarebbero diventate un infelice ricordo dopo la promulgazione della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che abroga l’autorizzazione maritale e ammette le donne all’esercizio di libere professioni e impieghi pubblici, pur con l’eccezione di “quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti o di podestà politiche, o che attengano alla difesa dello stato, secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”, a meno che norme espresse non prevedano il conferimento di codesti incarichi. Con il crepuscolo della libertà in periodo fascista, quando gli Ordini forensi, considerati autentici “fossili sociali”, sono svuotati dei poteri e mantenuti solo teoricamente in vita, le donne s’avviano alla professione con passione, nonostante il sarcasmo e le immotivate riserve dei colleghi maschi.
Il retaggio di tali atteggiamenti si percepisce durante il dibattito sul potere giudiziario nella Seconda Commissione, dove l’alto livello tecnico delle maggior parte delle norme approntate non fa dimenticare che la declinazione al femminile della parola magistrato viene percepita come un oltraggio alla grammatica giuridica e istituzionale, allo stesso modo in cui una devianza sintattica, ancorché veniale, suscita la reazione scandalizzata dei puristi di lingua e letteratura. I favorevoli all’ipotesi che le donne svolgano uffici giurisdizionali (Calamandrei, Farini, Di Giovanni, Targetti, Laconi) prevalgono sui contrari (Cappi, Leone, Mannironi). Anche la Commissione di magistrati della Corte di cassazione, nominata dal ministro della Giustizia, nel progetto elaborato si dichiara nettamente avversa alla possibilità che la donna entri nei ruoli della magistratura.
Naturalmente le deputate fanno sentire la loro voce sia nell’Adunanza plenaria della Commissione dei 75 sia nell’Assemblea Costituente, chiamata all’approvazione definitiva della Carta costituzionale. In questi consessi allargati, si stagliano in rilievo le figure di Maria Federici e Angela Gotelli della Democrazia cristiana, di Nilde Iotti e Maria Maddalena Rossi del Partito comunista. Esse innervano la discussione con il richiamo al principio fondamentale di eguaglianza, vera e propria stella polare dell’Italia repubblicana e democratica, che significativamente nessuno dei presenti tenta di confutare.
Per cogliere meglio il divenire del dibattito che, a dire il vero, in quel tempo e su questo tema conferma una pesante arretratezza culturale del nostro Paese, l’analisi rispetterà la scansione temporale degli interventi, in modo da constatare la progressività del discorso complessivo.
Il confronto in Adunanza plenaria, presieduta da Meuccio Ruini, avviene il giorno 31 gennaio 1947, pochi giorni dopo la conclusione dei lavori della Seconda Sottocommissione, e il ragionamento si polarizza sull’articolo 98 del progetto di Costituzione: “I magistrati sono nominati con decreti del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.
Prende la parola Targetti, convinto fautore dell’ipotesi della donna-giudice, secondo cui nella formula riportata – diversa dal più semplice testo della Seconda Sezione (“Possono esservi ammesse anche le donne”), ma aggiunta dal Comitato di redazione in fase di coordinamento -, “c’è il pensiero e la finalità di limitare l’accesso delle donne in magistratura”. I motivi dell’ostracismo non persuadono, in quanto “non si può, da una parte, ammettere la presenza, graditissima e utilissima, nella Costituente di tante egregie colleghe; ammettere che una donna possa salire anche su una cattedra universitaria e, dall’altra, negare che la donna abbia le attitudini necessarie per diventare anche Consigliere di Cassazione”. Infine il colpo finale, ma suggestivo: tra questi alti magistrati, forse, qualcuno “ non ha le qualità di intuito e di capacità intellettiva che possono avere alcune donne”, e propone la soppressione della dicitura in esame.
Tra gli oppositori, replica subito Leone, per il quale “nessuna difficoltà esiste per dare un più ampio respiro alla donna nella partecipazione alla vita pubblica del Paese”, ma “la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giudiziaria non sia per ora da ammettersi…Negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione, che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”.
Nella stessa prospettiva contra mulieres, Cappi sostiene che “una delle ragioni principali, per cui ha espresso parere contrario all’ammissione delle donne in magistratura è che, almeno oggi, nella coscienza popolare non v’è la convinzione che le donne possano esercitare – soprattutto indiscriminatamente – la funzione di giudice. Si dovrebbe fare, se mai, un referendum; in ogni modo riassume la ragione della sua opposizione in questa proposizione: a suo parere, nella donna prevale il sentimento al raziocinio, mentre nella funzione di giudice deve prevalere il raziocinio al sentimento”; Giuseppe Codacci Pisanelli adduce la struttura fisica: “Per sua diretta esperienza, un tempo, di magistrato afferma che in un’udienza a volte la discussione si protrae per ore ed ore e richiede la massima attenzione da parte di tutti. E’ evidente che per un lavoro simile sono più indicati gli uomini che le donne. In altri termini, si tratta di quella stessa resistenza fisica che viene considerata quando si parla del servizio militare. Per tali considerazioni ritiene che non sia opportuno ammettere le donne nella magistratura”; Enrico Molè, dichiarando di aver combattuto la proposta di ingresso della donna in magistratura sia in Consiglio dei ministri che in seno alla Sottocommissione, asserisce “non trattarsi né di superiorità, né di inferiorità della donna di fronte all’uomo nella funzione giurisdizionale: è soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico che la donna non può giudicare”. Insomma, è un’isterica e tanto basta.
Anche uno sprovveduto in diritto s’accorge dei banali luoghi comuni, e di scarsa efficacia dimostrativa, oggetto perciò di attacchi simultanei da parte delle donne costituenti per una contestazione radicale, tutta mantenuta sul piano delle rispondenze storiche e logiche. Comincia Maria Federici e fa notare che in diversi Stati i diritti della donna sono uguali a quelli dell’uomo per tutti i settori della vita sociale e civile. Reputa impossibile che solamente in Italia si voglia mantenere un’inferiorità tra i sessi. Poi, l’argomentazione essenziale: “Quando si stabilisce che il merito e la preparazione sono i soli elementi discriminatori per quanto attiene alla possibilità di aprire tutte le carriere alla donna, non vi è da aggiungere altro. Quando invece si parla di facoltà, di attitudini, di capacità, si portano argomenti deboli che offendono la giustizia. Se è difficile, ad esempio, trovare una donna capace di comandare un Corpo d’armata, bisogna anche dire che vi sono tanti uomini incapaci. Del resto almeno una volta nella storia si ha una santa, Giovanna d’Arco, che può dare lezione a tutti. Non si parli, quindi, di attitudine, di capacità, di facoltà: si lasci il criterio della preparazione e del merito, che può essere accettato dalle donne in genere e anche dalla coscienza nazionale, nel momento in cui si sta elaborando la Costituzione”.
Segue Nilde Iotti, che aderisce alle tesi svolte dai colleghi Targetti e Federici, e specifica che “i motivi addotti dall’onorevole Leone non sono validi perché, se è vero che si deve far sentire in certo grado la femminilità della donna, non per questo si deve precludere alla donna l’accesso agli alti gradi della magistratura, quando abbia la capacità di arrivarci. Può anche darsi che le donne non ci arrivino, ma in questo caso si tratta di merito. Richiama, inoltre, l’attenzione dei colleghi sulla norma della Costituzione la quale stabilisce che tutti i cittadini, di entrambi i sessi, possono accedere alle cariche pubbliche. Il testo del Comitato di redazione, a suo parere è in contraddizione con questa norma”. Il suo collega di partito, Fausto Gullo, in Assemblea costituente dichiarerà: “Non v’è una sola ragione che autorizzi ad affermare che la donna non debba avere una completa parità di diritti con gli uomini.
Non v’è un motivo solo per dimostrare che la donna eserciti, meno bene dell’uomo, qualunque carica; potrà commettere degli errori, ma gli errori li commettono anche gli uomini. Non v’è quindi ragione, perché la donna non sia anch’essa ammessa all’esercizio della potestà giurisdizionale. Essa forse intenderà meglio di noi uomini tanti stati d’animo che a noi sfuggono, ma che invece sono appresi con quella più acuta sensibilità, che è propria della donna. La donna giudice intenderà più e meglio degli uomini ogni motivo di pietà e di sofferenza. Vi sono circostanze, fatti e sentimenti che noi uomini non sappiamo valutare pienamente, così come possono e sanno le donne”.
A sua volta, Angela Gotelli ribadisce un concetto già accennato da altri deputati, vale a dire che “permettere alle donne di arrivare agli alti gradi della Magistratura non significa portarcele per forza. Gli uomini avranno sempre la possibilità di lasciarle indietro, qualora abbiano possibilità e meriti maggiori. Pensa in ogni caso che, se si vuole essere coerenti, non si debba intaccare il principio di eguaglianza affermato nella Costituzione”. Per inciso, la Democrazia cristiana non è del tutto favorevole all’ammissione delle donne in magistratura, onde le posizioni assunte da Federici e da Gotelli, in contrasto con gli orientamenti del partito, delineano i contorni di personalità coraggiose, che hanno temprato nelle file della Resistenza l’aspirazione alla libertà e alla giustizia.
Nonostante lo spessore degli elementi di sostegno, l’emendamento Targetti non viene approvato, e lo schema della norma, nella stesura del Comitato di redazione, diviene parte del Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana che, accompagnato da un’esaustiva relazione del presidente Ruini, è presentato all’Assemblea costituente sempre il 31 gennaio 1947. Questo progetto rimane in discussione dal 4 marzo al 22 dicembre, e l’argomento delle donne in magistratura viene ripreso nella seduta antimeridiana del 26 novembre 1947. Maria Federici presenta un emendamento che mira a sopprimere dal primo comma dell’articolo 98 l’inciso: “Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario”. Ritiene di essere appagata di quanto prescritto dall’articolo 48, cioè che tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche pubbliche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. “E’ ben vero che l’articolo 48 sta sotto il titolo IV ‘Rapporti politici’, ma non v’è dubbio che, votandolo, l’Assemblea non ha dato ad esso, in nessun modo, valore restrittivo o significato particolare. Né è men vero che, parlando nell’articolo 48 di uffici pubblici, non sia fra essi compresa la Magistratura, ché anzi fra gli uffici pubblici la Magistratura è ufficio pubblico per eccellenza”. In fin dei conti, il diritto della donna è insito nel principio di uguaglianza e non ha bisogno di alcuna specificazione.
Sbirciando la cronaca completa della seduta, desta curiosità la presentazione di altre modifiche di contenuto identico a quella di Maria Federici, che ne segnala il profilo pretestuoso, poiché i proponenti, con la cancellazione del periodo, hanno l’intenzione effettiva “di non parlare neppure del diritto della donna ad accedere alla Magistratura”.
In una linea diversa, invece, si pone la richiesta di Maria Maddalena Rossi, sottoscritta anche da Teresa Mattei, diretta a sostituire il periodo in questione con un enunciato nitido: “Le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura”. La variante proposta conferisce alla norma in discussione la funzione di “corollario logico dell’articolo 48, nel quale è affermato il diritto della donna ad accedere a tutte le cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza rispetto agli uomini. Voler limitare o addirittura vietare l’accesso delle donne alla Magistratura, come è nello spirito dell’articolo nel testo del progetto e come ancora più chiaramente è nelle intenzioni di alcuni colleghi, come è emerso nel corso del dibattito su questo titolo, contraddice e alla lettera e allo spirito dell’articolo 48. L’Assemblea non vorrà dare una prova così palese di incoerenza”.
Di per sé, nell’architettura essenziale del discorso, le esposte osservazioni hanno forza assorbente, e sono rifinite con esempi e citazioni, che provano l’elevato livello culturale e politico dell’oratrice: come il richiamo alla Costituzione francese, che garantisce alla donna in tutti i campi, compresa la magistratura, diritti uguali a quelli dell’uomo; il nutrito elenco di Paesi che ammettono la donna, senza restrizione alcuna, all’esercizio della giurisdizione (Unione Sovietica, Stati Uniti, Finlandia, Giappone, Cina, Brasile, Norvegia, e altri); le vicissitudini sofferte da Lidia Poët e Teresa Labriola per ottenere l’iscrizione all’Ordine degli avvocati, diventato diritto con la legge del 17 luglio 1919 n. 1176; la suggestiva menzione dell’opera Il mercante di Venezia, dove William Shakespeare idealizza in Porzia la donna che rende giustizia con il criterio sovrano del buon senso, sussidiato dall’equilibrio.
Gli applausi e le congratulazioni sono tanti e calorosi, ma l’emendamento è respinto a scrutinio segreto: i votanti sono 120 a favore e 153 contrari. Tuttavia, la battaglia non si chiude o meglio non produce perdite irreparabili, in quanto nella seduta pomeridiana viene approvato un ordine del giorno, che Maria Federici definisce “una messa a punto circa gli orientamenti di tutti i settori sulla questione che riguarda l’accesso delle donne alla Magistratura”. Questo il testo integrale: “L’Assemblea costituente, considerato che l’articolo 48 garantisce a tutti i cittadini di ambo i sessi il diritto di accedere alle cariche elettive e agli uffici pubblici, in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge, afferma che per quanto riguarda l’accesso della donna alla Magistratura l’articolo 48 contiene le garanzie necessarie per la tutela di questo diritto”.
I lavori assembleari, dunque, contengono un messaggio aperto al futuro: i principi di parità dignità dei sessi e di eguaglianza nelle cariche pubbliche elettive e amministrative sanzionano il diritto delle donne a operare in ogni settore della vita pubblica, anche se il legislatore sarà poco solerte nel ritoccare la previgente e contraria normativa, per adeguarla al dettato costituzionale. Passeranno ancora tre lustri dall’entrata il vigore della Costituzione e ci vorranno alcune sentenze della Corte costituzionale, che danno una spinta all’emanazione della legge 9 febbraio 1963, n. 66 per l’accesso delle donne in magistratura.
Francesco Nuzzo