Correvano gli anni ’90 e già s’annunciava la migrazione della politica verso una fantasiosa galassia di pittoreschi nomi di fatto sganciati da ogni nesso apparente con l’identità storica dei rispettivi partiti. Il fenomeno celebra oggi, fra grilli, sardine, astronauti e ed esordienti Controvento il suo tragicomico picco. Coincidente, si spera, col suo epilogo. Tutto cominciò nel ’91 con la Quercia. Seguì poco dopo l’Ulivo di Prodi, sciolto nel 2007 per confluire nel Pd. Ed ecco spuntare l’Asinello di Parisi: scelta identitaria lievemente autolesionistica ma, col senno di poi, profeticamente azzeccata. E nel tripudio botanico trovò posto anche l’umile Margherita così diversa dalla possente Quercia, tradizionale simbolo di forti radici. Radici, appunto: quelle che un soggetto politico dovrebbe aver cura di coltivare nel settore sociale e territoriale che lo legittima affidandogli la rappresentanza dei suoi interessi concreti e dei suoi valori ideali. Il fatto è che la Quercia alludeva alle radici dell’azione politica proprio quando iniziava il gigantesco processo che via via le avrebbe indebolite e disintegrate, recidendo gran parte del tradizionale insediamento sociale dell’intero sistema politico italiano. E con esso le relative culture. Anche di questo risente oggi il discorso pubblico dei partiti, spesso così irritante per la surreale genericità d’intenti a cui è costretto in assenza di solide coordinate di riferimento. Mai forse come negli ultimi anni la politica ha saputo così poco di se stessa e degli interlocutori sociali cui si rivolge. Condizioni operative che le rendono difficilissimo fare quel che l’urgenza presto esigerà: indicare una realistica procedura di ricostruzione della ricchezza nazionale. I partiti parlano a tutti e a nessuno, a quale bacino di voti si rivolgano, ora che forse non leggono più nemmeno De Rita, se lo fanno dire da sondaggisti e tv. Qualche attenuante va dunque riconosciuta a chi oggi affronta la terribile emergenza con strumenti di fatto ereditati da un sistema politico che da un paio di decenni almeno si è avvitato su stesso senza aver trovato o voluto trovare convincenti vie d’uscita. Dalla fine degli anni ’80 profonde modifiche del quadro internazionale e interno rovesciarono sul nostro sistema politico e istituzionale una tempesta di sollecitazioni che lo sfidavano a cambiar pelle e a farlo in fretta a suon di riforme. Quel che oggi l’Europa ci chiede – metter mano a burocrazia, giustizia e sviluppo tecnologico – non è una casuale sommatoria di ingrati compiti. Sono i capitoli strettamente interdipendenti di un unico processo di messa in sicurezza del sistema Paese. Non averli compiutamente affrontati ci ha fatti correre con la palla al piede, ha tarpato ali ai processi innovativi, impoverito di risorse la pur forte vocazione produttiva dei nostri territori. Alla senescenza di culture politiche che hanno via via perso ruolo egemonico rispetto ai processi sociali in corso, il Paese ha reagito con due grandi ondate antisistemiche, di diversissima se non opposta natura. La prima fu la Lega lombarda di Bossi, la seconda furono i 5 Stelle di Grillo. Nordista e ancorata all’etica del lavoro la prima, sudista e orientata a scelte di assistenzialismo redistributivo la seconda. Ciò non toglie che Questione settentrionale e Questione meridionale stiano ancora lì, irrisolte e incattivite, a suggerire che l’impotenza riformatrice del sistema è specularmente riflessa nell’impotenza dell’antisistema.
Ma il tempo stringe. Cosa farà la politica quando, esaurita la fase ospedaliera ed elemosiniera, tornerà a occuparsi di ricchezza da produrre piuttosto che da distribuire, di asset strategici da ripensare e di una reindustrializzazione ecosostenibile? Il panico è palpabile nell’evidenza delle nevrosi psicomotorie che spingono tutti a cercare tutti in una danza impazzita di quotidiani riposizionamenti. La sinistra punta a un nuovo soggetto e forse un nuovo nome. E dopo Quercia e Ulivo, se Letta non farà il miracolo, non resterà che il Salice piangente. Nel frattempo oltre alla saga botanica s’affaccia quella ittica. il variopinto popolo delle sardine, look furbetto, un po’ rapper e un po’ liceale bene, staziona in tenda pronto a correre in aiuto dei 5 Stelle: per aiutarli ad aprire il Palazzo come una lattina di tonno o per farsi inscatolare pure loro nella dorata lattina che per quanto vilipesa è pur sempre meglio di una tenda? Anno zero della politica. Punto di massimo allontanamento formale e sostanziale rispetto al ciclo che guidò il paese dal 2° dopoguerra, quando una nomenclatura partitica di pudiche fantasie si presentava con nomi di battesimo che subito ne trasmettevano progetto e identità: democristiani, comunisti, repubblicani, liberali, socialisti e così via. Certo, non viveva nelle attuali condizioni di precaria solitudine autoreferenziale: intorno a lei gravitava – a garantirla e nutrirla di concrete istanze – tutto un sistema di pianeti minori, vale a dire un associazionismo sociale e territoriale fortemente strutturato che aveva un nome abiurato da decenni: collateralismo.
Al suo posto oggi c’è la gelatina umana plasmata dalla globalizzazione: ceto medio proletarizzato, proletariato industriale falcidiato, borghesia delle professioni a disagio nella storica identità liberal moderata dopo che, con ennesima muta di piumaggio, l’estemporaneo Di Majo ha virato in quel senso. E come risponde la politica allo smarrimento identitario della società? Illudendosi che l’oblio delle proprie radici storiche, rimosse fin nel nome, sia efficace terapia di rinascita e legittimazione nel nuovo mondo. La contesa intorno alle spoglie del post comunismo su cui persino un Grillo astronauta avanza pretese è, anche umanamente, penosa. Intanto Casaleggio litiga con l’Elevato e fonda Controvento mentre I grillini dissidenti s’inventano Alternativa c’è. Quest’impazzita moltiplicazione di sigle – due persone ed è già un partito – ci dice a qual punto sia giunto il morbo scissionista che, specie in area giallorossa, devasta la politica. Dove mancano i muri perimetrali di un grande progetto condiviso ogni divergenza diventa secessione. E avanti così fino all’infinitamente piccolo in un delirio di parole in libertà. D’accordo, a teatri e cabaret chiusi occorre tener vivo lo spettacolo ma che la leggerezza delle parole non diventi un peso tanto insostenibile da schiacciare definitivamente quel che resta della politica.