A Nansen
Le nostre due storie hanno come palcoscenico una società canottieri sorta, come altre, sulle rive lombarde del Po – nel tratto compreso tra la confluenza del Ticino alla Becca e la Sacca di Colorno, al confine con la Bassa parmense – e frequentata dalla buona borghesia di provincia. Davanti agli occhi di chi percorreva in barca questo tratto di fiume sfilavano piccoli paesi, pioppi che costeggiavano gli argini in netti filari o affollavano le terre di golena; intorno alle lanche formatesi ai margini della corrente, il folto sottobosco – la boschina – offriva riparo alle coppiette che si confrontavano con le prime cerimonie dei sensi; qua e là le sponde, mutevoli e sempre nuove, si aprivano in ampie distese di sabbia chiara – gli spiaggioni – e nei periodi di magra emergevano isolotti che da un giorno all’altro cambiavano forma o scomparivano inghiottiti dalle acque; la sabbia scintillava nella calura estiva e le dune createsi nei giorni di vento sembravano un lembo di deserto africano. A sera, poi, si restava incantati di fronte al tramonto, al disco rosso che si immergeva nelle acque del grande fiume, mentre sull’altro versante del cielo la luna ancor pallida
stava per offrire nuovi contorni alle cose.
Colpo di teatro
“ Cosa ti è saltato in mente Fratta! Dove ce l’hai la testa… al posto del culo? Ti rendi conto dell’imbarazzo che ci hai procurato? Certamente al partito, ma soprattutto all’onorevole Moretti che ti ha sempre protetto.”
Il Federale, seduto alla grande scrivania in radica si sfogava sbraitando contro il giovanotto che gli stava di fronte rigidamente sull’ attenti.
“ Sono costretto a prendere dei provvedimenti: anche l’onorevole ha dovuto convenire che non puoi passarla liscia…”
“ Me ne rendo conto camerata Federale.” – rispose il giovanotto – “ Dite all’eccellenza Moretti che mi scuso per il comportamento imperdonabile e accetterò di buon grado la punizione che mi verrà assegnata.”
A questo punto il Federale, il cui atteggiamento stava via via stemperandosi in quello dell’adulto burbero che rimprovera un ragazzaccio scavezzacollo, si alzò dalla poltrona e con fare paternalistico si avvicinò al giovane.
“ Ma benedetto ragazzo… un atleta premiato ai Littoriali, un buon fascista come te… un nobile poi! noi apprezziamo la gioventù maschia… le dimostrazioni di virilità… ma c’è modo e modo! Quello che hai fatto è scandaloso… e poi alla festa che la canottieri dava per l’onorevole Moretti e la sua signora… donna Rita… con tutti i pezzi grossi del partito e le loro mogli… gli industriali, i professionisti più in vista della città… le signorine da marito… insomma la crème… e sua eccellenza il prefetto!”
Il Federale prese fiato e accese una sigaretta, mentre il giovane restava immobile in silenzio, lo sguardo fisso al ritratto del Duce appeso al muro dietro la grande scrivania.
“ Non bastava…” – riprese il Federale con foga rinnovata – “ non ti sei accontentato di presentarti alla festa con questa Alba Migliorati, una piscinina di modista, spacciandola per una baronessina bresciana… invece no… dovevi portartela dietro una siepe, neanche tanto lontana dalla pista da ballo, metterla a quattro zampe con la sottana sopra la testa e le chiappe al vento… e fotterla sotto la luna piena… che ci si vedeva anche meglio! E quella bacchettona…la moglie dell’ingegner Tornetti… nell’andare al cesso vi sorprende e grida allo scandalo!”
Il giovane su cui si scatenava quella tempesta di rimproveri era il conte Adalberto Fratta Cavallerone: ventisette anni, atletico, bello e con una patina di ribalderia, un po’ goliardo e un po’ dannunziano, con il gusto del rischio e delle avventure galanti; piaceva molto alle donne, che si impegnava sempre a soddisfare con passione. Buon tennista e ottimo nuotatore, eccelleva anche nel tiro a segno e nella ginnastica, tant’è che si era segnalato per bravura e sprezzo del pericolo ai Littoriali: salto mortale sul telo, salto nel cerchio di fuoco, evoluzioni a corpo libero e con attrezzi, nonché virtuosismi con la moto fino ad eseguire, fra gli applausi di un pubblico entusiasta, il “giro della morte”. Insomma, una sorta di Ettore Muti della bassa padana. Il patrimonio di famiglia era invece ormai al lumicino: il nonno aveva
sperperato cifre col gioco e con l’ assidua frequentazione dei tabarin e delle case d’appuntamento; quanto restava, ci aveva poi pensato il padre a falcidiarlo in ricerche araldiche senza fine. Ad Adalberto era così rimasto appena di che vivere e per i propri piaceri – dal momento che amava spendere e fare la bella vita – si arrangiava con le scommesse sulla propria abilità di sportivo dove spennava lo sprovveduto di turno e vendendo via via quanto restava degli oggetti di famiglia di un certo valore: tovaglie di fiandra ricamate, un paio di mobiletti del ’700, qualche quadretto e un po’ di argenteria. Ma i proventi più cospicui gli derivavano dalle amanti ricche – signore non più giovanissime con mariti anziani e facoltosi – che si toglievano lo sfizio di andare a letto con quel pezzo di marcantonio colmandolo di regali e passandogli non di rado anche del denaro che lui poi spendeva a piene mani facendosi accompagnare nei posti più costosi – a Capri, a Venezia, a Portofino… – da sartine e kellerine di primo pelo. E quando, trovandosi alle strette, ricorreva a qualche debituccio o non poteva saldare un conto rimasto troppo a lungo insoluto, ci pensava l’onorevole Moretti a tirarlo fuori dai guai. Questa volta, però, mentre il Federale parlava, Adalberto capiva che avrebbe dovuto pagare le conseguenze di quell’impennata di testosterone; ma era anche certo che non gli sarebbe stato imposto un gran sacrificio.
“In definitiva” – concluse il Federale che riteneva di averlo strigliato abbastanza – “ si è deciso che tu mandi le scuse scritte al partito e,
naturalmente, alla società canottieri, il cui consiglio direttivo ha comunque deciso per la tua radiazione. Tra un paio d’anni l’onorevole Moretti presenterà istanza di riammissione e tutto sarà sistemato. A un gerarca del suo peso non potranno dire di no.”
Per nulla avvilito dalla punizione, in quella prima estate di esilio mondano, Adalberto si presentò ogni giorno sulla riva del Po appena fuori
dai cancelli della canottieri, ma bene in vista. Arrivava sul bacino in pantaloni lunghi di lino bianco e maglietta della G.I.L. che poi toglieva con studiata lentezza per esibirsi – a torso nudo e costume da bagno – in verticali molto plastiche e in spericolati tuffi ad angelo spiccati da un pilone del vicino ponte; una volta in acqua nuotava impavido nella corrente a bracciate vigorose. Lo seguiva un codazzo di giovani – per lo più ragazzaglia che lui aveva raccattato nei quartieri popolari – che applaudivano fragorosamente alle imprese del loro eroe e lo incitavano a gran voce. All’interno della canottieri le signore, che commentavano con severità quelle esibizioni, mal dissimulavano un turbamento sottile con una sorta di pruderie che si contrapponeva all’irritazione – in parte dettata dall’invidia – dei loro accompagnatori.
Anche nell’inverno che seguì Adalberto fu tenuto lontano dai ritrovi mondani più esclusivi e dalle feste nei circoli più su della città. L’anno dopo, il 1940, l’Italia entrò in guerra e Adalberto fu spedito in Africa come tenente dei carristi: non poteva mancare all’appuntamento e, bisogna ammetterlo, si comportò con onore. Infatti nell’estate del ’41 fece ritorno con una medaglia d’argento in più e il braccio sinistro in meno. Ora non erano più necessari i buoni uffici dell’onorevole Moretti per riammetterlo alla canottieri, dove fu accolto con tutta la cordialità – delle signore che facevano a gara nel contenderselo – e il riguardo – dei signori, loro malgrado – dovuti a un eroe decorato sul campo di battaglia. Ormai è un grande invalido e alla canottieri circola spesso a torso nudo senza alcun imbarazzo per la propria mutilazione, anzi ostentandola con orgoglio. Sa di essere un personaggio e ne interpreta con impegno e studiata disinvoltura il ruolo: le donne stravedono per lui, soprattutto quelle con il marito sotto le armi.
Passavano le stagioni e la guerra proseguiva la sua corsa tragica verso un epilogo che sembrava non arrivare mai. Le ristrettezze, la paura e il malcontento diffuso si sostituivano via via al piacere della mondanità e con essa scemava anche il fascino di Adalberto. Era come se un velo nero si fosse disteso sulla nazione, e ancor più tenebroso e persistente al nord dove gli scontri si moltiplicavano in un crescendo di ferocia e di atrocità quando ormai nel resto d’Italia cessavano i combattimenti. In quell’aprile del ’45 l’acqua di molte lanche del Po era arrossata dal sangue e la corrente in piena trascinava – oltre ai detriti, alle masserizie e alle carogne di animali – molti cadaveri di uomini. Anche Adalberto si sarebbe potuto trovare tra i cadaveri senza nome in balìa di quelle acque lutulente se ad arrestarlo, anziché un ufficiale di polizia partigiana del Partito d’Azione – un laureando in legge di Alessandria -, fosse stato un rosso duro e spietato delle “Garibaldi”. Fu incarcerato a Verona come repubblichino, proprio lui monarchico e nobil homo! In realtà aveva aderito alla Repubblica di Salò solo per compiacere all’onorevole Moretti, ma non aveva mai partecipato ad atti di violenza, né si era mai interessato di politica. Il suo essere fascista si era esaurito nella gestualità atletica, nell’inguaribile narcisismo, nel gusto dell’impresa da esibire non solo alle donne, ma in generale ad un pubblico di cui sollecitava l’applauso.
E dunque affrontò il processo. Qui Adalberto mise a segno il suo colpo di teatro più clamoroso. In pieno dibattimento, di fronte agli intervenuti attoniti, a giudici e ad avvocati non meno esterrefatti, d’improvviso scattò in piedi. “Viva l’Italia! Viva il Re!” gridò. E sull’urlo stentoreo di “Savoia!” bevve d’un fiato, prima che potessero fermarlo, il veleno di una boccettina che gli aveva nascostamente consegnato, durante una visita in carcere, l’unica rimastagli delle sue numerose amanti: quella stessa Alba Migliorati con cui sei anni prima aveva dato scandalo alla festa della canottieri. Ma il veleno non era poi così potente e fu salvato. Era questa infatti la condizione impostagli dalla Migliorati per collaborare alla sceneggiata: diversamente, se fosse finita male, si sarebbe uccisa anche lei, infatuata com’era del suo Adalberto… tanto infatuata da perderci la testa come il primo giorno. Perché l’Alba, il suo bel conte – che senza un braccio le pareva anche più bello! – non l’avrebbe cambiato con nessun altro; nemmeno – sosteneva con le amiche – con il Massimo Serato o l’Amedeo Nazzari, i sui attori preferiti. Adalberto Fratta Cavallerone fu poi assolto con formula piena, come in fondo era giusto. Ma la sua popolarità era svanita e, caduto nel dimenticatoio e senza patrimonio alcuno, lasciò la città insieme ad Alba. Da allora non si seppe più nulla di loro.
Coincidenze
Vi sono date che ricorrono curiosamente nei destini degli uomini e delle nazioni: per noi italiani il 20 settembre è una di queste. Nel 1870, attraverso la breccia di Porta Pia, i bersaglieri di Lamarmora, al comando di Raffaele Cadorna, ponevano fine ad un potere temporale ormai decrepito; alla mezzanotte del 20 settembre 1958, mentre sul palco della Fondazione Cini di Venezia il Coro della radio di Amburgo concludeva un concerto applauditissimo, venivano apposti i sigilli a centinaia di portoncini lungo tutta la penisola, in ottemperanza alla Legge 75/58 , meglio conosciuta come Legge Merlin. La mattina di questo secondo 20 settembre, un limpido sabato di fine estate, Mario – un robusto trentenne con la passione della voga – arrivò intorno alle nove alla società canottieri ancora semideserta. Se non proprio triste, era un po’ malinconico. Si sedette su una panchina nel prato di fronte al bar ristorante, sotto una grande magnolia; tutt’intorno facevano ombra piante ad alto fusto – pioppi, platani e tigli profumati – dai cui ombrelli ancor folti filtravano qua e là spere di sole e si intravvedevano spicchi di un azzurro chiarissimo; l’aria, solitamente umida per la vicinanza del fiume, era fresca e gradevole, resa asciutta da una brezza leggera. Insomma, la giornata si presentava ideale per una gita in barca. Mario stava infatti aspettando gli amici – quasi tutti ex atleti del remo – per organizzare gli equipaggi con cui risalire per un tratto la corrente e poi passare sull’altra sponda; si sarebbero fermati da “Satana”, un’osteria rivierasca – uno dei cosiddetti baracchini – dove avrebbero soffocato nell’abbondanza di cibo e di bianco frizzante della Val Trebbia lo sconforto per la chiusura dei ritrovi galanti. Era stata soppressa un’istituzione radicata per secoli nelle abitudini degli italiani: una perdita non da poco poi per degli uomini ancor giovani, pieni di energie e un po’ scavezzacollo. Ma bisognava pur farsene una ragione. Intanto gli amici arrivavano alla spicciolata: Bruno, Felice, Cesare, Peppo… Quando il gruppo fu al completo – una decina in tutto – una volta formati gli equipaggi, presero la via del fiume. Giunti a destinazione si sedettero ai tavoli apparecchiati. Mentre aspettavano l’addetto alle ordinazioni, si accorsero che ad una tavolata poco discosta dalla loro era seduto un gruppo di signorine che , al seguito della Egle – la tenutaria della Maison dorée, una della case più rinomate – avevano avuto la stessa idea di celebrare quella chiusura così impopolare. In un batter d’occhio i due gruppi si unirono, dando inizio ad un vivace incontro conviviale. Poco dopo giunsero al medesimo attracco le barche di alcuni professionisti e industriali molto noti accompagnati dalle mogli: approfittando della bella giornata avevano anche loro deciso di pranzare in riva al Po e avevano scelto come meta – per la bontà dei salumi, la fragranza del pesciolino fritto e la gradevolezza dei vini – il baracchino di Satana.
I nuovi arrivati, osservando l’altra tavolata, ne riconobbero subito i componenti e tutto sarebbe finito nell’imbarazzo di un attimo se non fossero intervenute le mogli che marciarono compatte dal ristoratore.
“ E’ una vergogna!” – inveivano aggressive – “Com’è possibile che si mangi vicino a delle poco di buono… vanno allontanate subito… noi con
delle baldracche… è scandaloso! Le mandi via! Deve mandarle via!”
“ Signore cercate di capire…” – si difendeva il ristoratore accerchiato e sommerso da quella valanga di proteste – “non posso farlo… sono
clienti… sarebbe contro la legge…”
Naturalmente, nonostante i loro sforzi, le mogli non ottennero l’allontanamento richiesto. Tuttavia non si dettero per vinte e, una volta a tavola, si scatenarono in apprezzamenti a voce alta incuranti degli inviti alla moderazione da parte dei mariti ansiosi di chiudere in fretta l’incidente. Nel frattempo i canottieri mantenevano un atteggiamento impassibile e le loro commensali proseguivano, senza batter ciglio, nella conversazione, indifferenti a tutti quei commenti che si facevano via via più pesanti. Solo la Egle – orgoglio di maitresse – non seppe resistere oltre alle provocazioni e, alzatasi in piedi, la voce roca da fumatrice incallita, sbottò a muso duro.
“Ohè contesse, piano con le parole! A letto con noi ci sono stati anche i signori seduti al vostro tavolo… e vi assicuro che non venivano per dormire! ” e restò impettita, l’immancabile sigaretta ben salda in un angolo della bocca, a squadrare con spavalderia tutta quella gente per bene. Dopo la breve sorpresa iniziale, mogli e mariti batterono in ritirata verso le imbarcazioni: i mariti davanti che, vergognandosi come ladri, si affrettavano goffamente, talora incespicando, sospinti con malagrazia dalle mogli inviperite alle loro spalle. Intanto sul fiume, a circa mezzo miglio di distanza, Morgan – un giovane professore di lettere classiche – in piedi a poppa di una veneta, remava senza sforzo usando con scioltezza il sot sura – una tecnica di voga per iniziati – e la barca scivolava agile sulla corrente. Pensava alla tragedia greca che, forse un po’ avventatamente, aveva scelto per gli studenti dell’ultimo anno di liceo. Sarebbe stato meglio anziché Sofocle scegliere Euripide?
“ Eh, mica facile l’Aiace…” – si diceva – “ e poi il coro… gli stasimi… sono la parte più dura… mah… ormai è fatta.”
Mentre così rimuginava si sentì chiamare a gran voce da una jole a due che veniva in senso opposto.
“ Morgan… Morgan!” – gridavano dalla jole – “ seguici! Hanno telefonato che da Satana c’è la Egle con tutte le sue ragazze!”
Morgan, ritto a poppa, salutò gli amici e fece un cenno di diniego. Aveva deciso di concedersi una pennichella per poi, verso le cinque, giocare a tennis… magari col Dario, il più bravo della squadra. Riprese a remare… ma dopo pochi colpi di remo si fermò… un lampo di malizia gli attraversò lo sguardo e, senza esitazioni, virò di centottanta gradi per mettersi nella scia della jole che lo precedeva già di una cinquantina di metri. E con la prua che puntava decisa verso il baracchino di Satana abbandonò ogni pensiero sull’Aiace.
“ Beh, è un’occasione unica…” – mormorò quasi per giustificarsi – “l’ultima in fondo…”
Adesso sorrideva e canticchiava una canzonetta che aveva di recente ascoltato alla radio.
“ Tu sei per me… la più bella del mondo…”
Gianni Carotti
da ‘L’occhio di Samuele’
Edizioni Campanotto