La crisi del sistema sanitario, balzata agli occhi di tutti durante la pandemia, è stata preparata e coltivata sistematicamente negli ultimi decenni sia a livello del governo centrale che regionale a tutto vantaggio della sanità privata, proliferata non a caso in modo esponenziale, col concorso, purtroppo, di quasi tutte le forze politiche, alcune delle quali, spiace dirlo, non hanno esitato a calpestare le conquiste dell’istituzione, nel 1979, del Servizio Sanitario Nazionale.
Ora cosa è rimasto dei buoni propositi scaturiti al momento della pandemia? Nulla, anzi, fin dove era possibile, si è peggiorata al situazione.
Se si continua a segnalare la carenza e la fuga di medici e del personale sanitario come fondamentale causa della crisi, che cosa si fa? Invece di andare alla radice del problema – sempre che questo sia il “solo” problema – lo si aggrava ulteriormente e tutte le risorse investite sul settore sono dirottate sull’edilizia, ovvero sulla costruzione di nuovi ospedali, il che è almeno paradossale, visto che gli ospedali esistenti rischiano la chiusura di interi reparti, non perché fatiscenti, ma per mancanza di personale. E di certo questa carenza, da problema indotto, si è trasformata in giustificazione e alibi. Ma si capisce molto bene, allargando lo sguardo all’Italia intera e registrando tutte le opere pubbliche avviate e rimaste incompiute o magari già fatiscenti ancora prima di essere inaugurate, che questa macchina della nuova edilizia ospedaliera non voleva (e non poteva) essere una risposta al problema, essendo tesa principalmente a soddisfare altri indicibili “bisogni”.
Uno sguardo a quanto si prospetta ora a Cremona è quanto di più illuminante in tal senso, ma credo che abbia un significato aggiuntivo come laboratorio di una nuova perversa strategia.
Come è noto, si prospetta la demolizione dell’ospedale esistente, vecchio (?) di soli 50 anni, per costruirne, sul medesimo luogo (quindi senza consumare altro suolo, o per meglio dire senza invadere altra area), uno nuovo, moderno, avveniristico, ma … molto meno capiente!
I governi attuali e i partiti che li governano e quelli che pure all’opposizione nella sostanza li puntellano nelle scelte più sbagliate per la salute, la crisi climatica, il governo del territorio e il consumo di suolo, sono così incapaci di veri progetti, di proiezioni nel futuro, di lanciare speranze e sogni che non siano quelli della detassazione dei grandi profitti e di altre manovre in vista delle prossime elezioni, tanto incapaci che ora, in questo particolare caso di Cremona, demandano agli artisti, o meglio agli architetti la proiezione del sogno utopico destinato immediatamente a incantare le folle.
Perché il progetto prescelto, ispirato a «principi di empatia e creatività», ovvero l’ospedale-velodromo, è in tutta evidenza figlio delle utopie architettoniche delle avanguardie artistiche del XX secolo e allo stesso tempo del mito del progresso e dei sogni positivistici delle esposizioni universali, panottico, con le sue stanze-cellette trasparenti (offerte alla economizzazione del controllo del personale sanitario), parente stretto di quell’aberrante progetto di passerella sospesa agli alberi, ideata per una ciclovia nel Casalasco, che pure ha fatto sognare molta gente.
Il lato perverso della questione è che questo progetto accattivante e avveniristico – bisogna osare, si dice, e proiettarsi nella modernità – così astratto e ab-solutus, si ammanta di una giustificazione ideologica che lo fa paradossalmente scaturire dalla morfologia del suolo e dall’aspetto del paesaggio, qualificandolo come l’opportunità unica di riconnessione tra la città e questi ambiti territoriali. Senza entrare nel merito delle scelte formali e tecnologiche, vorrei subito obiettare che il modo più vero di riconnettere la città al territorio è quello innanzitutto di garantire il diritto alla città che in varie forme viene sempre più negato; è quello ancora di non concepire il territorio come spazio della logistica, dei centri commerciali, del consumo di suolo, delle discariche, ma di considerarlo a tutti gli effetti uno spazio “cittadino”, civile e degno della stessa cura riservata ai centri storici. Non è insomma un problema di nuova edilizia, di creazione di poli attrattivi (così è definito il nuovo ospedale) perché un centro commerciale – ahimé – non manca di capacità attrattiva, anche se è più quello che distrugge, in termini di socialità, di quello che superficialmente crea.
Ma non è tutto, perché la relazione che accompagna il progetto è un centone di tutte le istanze del pensiero democratico-ecologista che, tradotte ormai in parole magiche, slogan buoni a tutti gli abusi, sono diventate la moneta falsa con cui barattare qualsiasi cosa. Ne cito solo alcuni: visione olistica di benessere in armonia con gli ecosistemi territoriali, interazione sociale, naturalità e biodiversità urbana, luogo plasmabile per eventi e attività legate ai sistemi architettonici pubblici, anello rurale, sistema resiliente, bosco terapeutico, impronta ecologica, sostenibilità ambientale, servizi ecosistemici forniti dal parco. Non so perché, ma non sento in alcuna riga di questa relazione un’espressione che sia “vera” e ho quasi il sospetto che a scriverla sia stato Chat GPT.
M’immagino già una conversazione futura: «Cosa fai in questo weekend?» «Vado all’ospedale» «Che cosa, non stai bene?» «Ma no, intendevo il Parco della Salute per immergermi nella biodiversità, sai ci sono tante farfalle e pappagalli che in piazza Stradivari non abbiamo!».
Persino la morte è linguisticamente celata, giacché l’obitorio qui si chiama morgue, come se, detto in francese, fosse un’altra cosa!
Il progetto riplasma le funzioni e il funzionamento dello stesso ospedale (per esempio l’abolizione della struttura del reparto a favore delle aree di degenza per “intensità di cura”), e qui servirebbe la competenza di medici e personale sanitario per discuterne, ma non contempla l’attrezzatura per non impedire la “flessibilità del complesso agli sviluppi futuri” (di tali costi aggiuntivi, per gli impianti di prima installazione, si occuperà poi la Direzione Sanitaria). Ambisce inoltre a divenire una «città nella città», un polo attrattivo per la comunità, con asilo, aree legate all’educazione, biblioteca, residenze temporanee, attività commerciali. Scusate se è poco!
E che dire del boschetto che mitigherebbe gli effetti del cambiamento climatico? Ottima cosa circondare una struttura di verde, lo si è fatto senza clamori in tanti altri casi. Quanto all’uso, ormai di moda, di mettere la vegetazione sopra i tetti (come se fosse poi una novità e non comportasse una serie di gravosi problemi manutentivi), mi viene solo da obiettare: lasciate la vegetazione dove c’è già, in città e fuori, invece di distruggerla sistematicamente. Un tempo a scuola circolava un motto, come ultima ratio per la cattiva architettura: «All’edera!». Non sarà questo il caso, ma allora perché camuffarla?
Che dire poi del laghetto centrale? Io mi sarei aspettato una piscina dove poter fare quell’utilissima idrokinesiterapia di cui tanti, me compreso, avrebbero bisogno: non sia mai, si toglierebbe lavoro ai centri privati! No, qui è puro paesaggio, una sorta di bugno urbanizzato dove mettere un po’ di pesci rossi, da contemplare direttamente dalle stanze perché questo è parte della cura. È vero, il paesaggio cura e dovremmo ricordarcelo non solo da malati, nelle nuove accoglienti stanze di questo resort di lusso, ma anche quando demoliremo il vecchio ospedale e dovremo trovare un luogo dove stoccare questa montagna di cemento. Che stupido, non ci avevo pensato: servirà certamente per il fondo stradale della nuova autostrada Cremona-Mantova, l’opera più assurda, inutile e distruttiva che le nostre amministrazioni abbiano concepito. Mi pare che questi nuovi progetti, pensati per inconsistenti bisogni, a parte quelli elettorali, si puntellino a vicenda.
No, mi piace pensare, come in un celebre racconto di Edgar Allan Poe, che, affacciati a una delle stanze o in cima alla pista ciclo-pedonale sul tetto del nuovo ospedale-velodromo, si possano vedere le possenti mura cadere in frantumi e lo stagno centrale chiudersi accidiosamente e silenziosamente sulle rovine del vecchio ospedale-Usher.
Che cosa volete che vi dica? Se avete soldi da buttare, costruite pure il nuovo, ma che abbia almeno la capienza del vecchio e possa rispondere veramente ai bisogni della comunità. Che tenga conto da subito delle situazioni di emergenza, sempre più frequenti, e delle calamità naturali (nulla di seminterrato perché siamo continuamente esposti al rischio di alluvioni, ma neppure alberi sui tetti), delle pandemie (non ne siamo usciti – anzi! – ma il progetto non ne tiene minimamente conto), del problema della sua manutenzione, qui direi verosimilmente molto onerosa. Che non resti opera incompiuta, come già fa temere tutta l’incertezza dei finanziamenti e il lievitare dei costi edilizi. La riqualificazione del vecchio costerebbe molto meno e, sono certo, garantirebbe di più!
Pensate di farvi interpreti delle esigenze del malato? Ma cosa chiede veramente chi soffre? Datemi innanzitutto la cura, perché alla socialità e all’estetica ci penso io!
Valter Rosa