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Elezioni, populismi sconfitti, vincono astensione e stabilità

6 Ottobre 2021

Sulle attese e temute amministrative d’autunno, tuttora in parte appese all’incognita dei ballottaggi, sta finalmente calando il sipario. E mai come in quest’occasione appare vero che ‘non conta tanto vincere o perdere quanto piuttosto come si vince e come si perde’. Come e ‘quanto’, è il caso di aggiungere. Il vero vincitore numerico e psicologico di questa tornata è infatti il partito dell’astensione. Milano, capitale morale e Roma, capitale politica non hanno mai storicamente registrato una più bassa affluenza alle urne. Più in generale, ha votato meno della metà degli aventi diritto. Il che marchia inevitabilmente questo voto depotenziandolo e consegnando i vincitori di qualunque colore agli incerti destini di un’investitura
dimezzata.

Se, almeno a spanne, è intuibile cosa si attende dalla politica chi ha votato, la vera domanda che con stringente urgenza si pone all’intero sistema è cosa pensa e cos’ha in testa chi non ha votato. Voti
congelati o persi per sempre? Quale forza politica può realisticamente aspirare a scongelarli e riagganciarli? L’impressione è di una democrazia stanca, sfiancata da troppe prove cui le classi dirigenti sono, a torto o a ragione, apparse impari e da troppi orizzonti incautamente promessi e puntualmente mancati. Ma è pur
vero che le procedure della democrazia rappresentativa nell’intera gamma delle sue espressioni – sindacati
compresi – sono in crisi non solo in Italia ma in gran parte delle liberal democrazie occidentali. Ne usciranno solo con un gigantesco sforzo di riprogettazione del rapporto con le opinioni pubbliche e gli elettorati che necessariamente passa per un coraggioso rinnovamento di classi dirigenti. Non che la voglia di partecipare
sia morta, tutt’altro. Tende piuttosto a sgusciare fuori dai tradizionali contenitori partitici, a percorrere nuove strade veicolate dal globalismo della Rete e a strutturarsi in movimenti, iniziative referendarie e così via. Uno sdoppiamento della politica fra ufficialità e movimentismo il cui decorso non è dato prevedere.

Quel che al momento è evidente è che una crescente quota di società civile fortemente motivata a cambiare il mondo, a partire dalla più prossima dimensione locale, ritiene che i partiti più che strumento
operativo siano ormai elemento di disturbo. Seria materia di riflessione per tutti, vincitori e vinti. La disaffezione alle urne, a quanto pare, ha riguardato soprattutto le periferie metropolitane, dunque fasce più deboli di popolazione, maggiormente esposte ai contraccolpi delle criticità degli ultimi anni. Meno culturalmente strutturati, spesso umanamente inclini al fideismo politico e all’apertura di credito verso leadership forti e magari urlate, furono i destinatari delle smisurate e incaute promesse di riscatto che le
politiche d’impronta populista sparsero a piene mani sui fertili terreni del disagio popolare. Gli stessi terreni su cui evidentemente la delusione è ora maturata in forma di punitiva diserzione. Non a caso è proprio il populismo, dai Pentastellati alla Lega ‘made in Salvini’, a uscire più malconcio dalle consultazioni.

Difficile dunque capire il voto e soprattutto l’entità del non voto senza ricorrere a una cifra psicologica: le urne del 2021 hanno raccolto la stagione del disincanto e del bisogno di stabilità e pacatezza così come nel 2016 avevano raccolto quella della spericolata utopia che incoronò le Raggi e le Appendino. Di certo nel
voto filtra anche l’indiretto appoggio a Draghi attraverso il sostegno a chi in modo più lineare e costante lo sostiene. Che poi tutto vada spiegato in funzione della presenza di Draghi, sia il voto di chi ha votato che l’astensione di chi s’è astenuto, pare davvero un po’ troppo… un pandemico innamoramento mediatico che
sta facendo del premier una specie di dantesco ‘motore immobile’ dell’universo . Al netto delle possibili sorprese riservate dai ballottaggi, qualche punto fermo c’è già. A cominciare da un vistoso paradosso: l’evidente sollievo di Conte per la frana pentastellata. Possibile? Possibilissimo e audacemente logico. La Caporetto che ha sfrattato il Movimento dai punti chiave della geografia amministrativa fatalmente coinvolge lo stato maggiore del partito spianando la strada al disegno di alleanza organica col Pd
tenacemente perseguito dall’ex avvocato del popolo. Il più è fatto. Ha limato le unghie al movimento e convertito la sua irreversibile crisi numerica e progettuale nel fattore di forza personale che gli consentirà di guidarne la mutazione: da giacobine truppe d’assalto a democristianissima ruota di scorta del Pd. La Storia nella sua genialità è capace di questi perfidi ma affascinanti colpi di teatro.

Ma passiamo al centrodestra, indubbiamente l’area più provata e punita dal voto. Anche se fra la realtà dei dati e la loro
narrazione, egemonizzata dalla consueta abilità autocelebrativa della sinistra, corre qualche distanza e una più realistica riflessione male non farebbe neppure in casa Pd. E’ vero che Letta a Siena ce l’ha fatta ma ha votato il 35% degli aventi diritto. E’ vero che ha vinto a Bologna e Napoli ma per sommatoria numerica coi 5 Stelle, cioè accollandosi un movimento in totale marasma interno e a costo di portarsi in casa un’autentica mina vagante. Alle prove in cui s’è presentato da solo come a Roma e Torino (ma pure a
Trieste) ha ottenuto risultati ottimi ma non risolutivi. La vittoria può dunque essergli, pur con difficoltà, tuttora contesa dal centrodestra .

A Milano, infine, dove Sala ha stravinto al primo turno, senza nulla togliere alle capacità oggettive del sindaco uscente e già rientrante, va detto che Salvini gli è stato sponsor involontario di eccezionale efficacia trasformando la regia complessiva della candidatura di Bernardo nel più sconcertante autogol elettorale della storia leghista. Che lo schieramento di centrodestra nel suo complesso abbia bisogno di un coraggioso intervento ‘sartoriale’ è tuttavia innegabile anche perché la disaffezione elettorale non ha colpito in modo omogeneo tutte le sue componenti. Forza Italia ne esce di fatto rinvigorita ed è impressione diffusa che la testa più lucida e concreta dello schieramento sia ancora e sempre l’inossidabile Cavaliere, adeguatamente premiato dall’esito del voto in Calabria. Casomai è la strada verso la federazione di centrodestra a investitura salviniana, fino all’altro ieri caldeggiata da Berlusconi, ad apparire dopo il voto ulteriormente destabilizzata.

E siamo così a Salvini che, almeno al momento, appare come Il vero perdente della situazione. Non solo perché numericamente superato dal partito della Meloni ma perché si è incartato da solo nell’insostenibile leggerezza delle troppe contraddizioni e dei disinvolti azzardi che hanno finito col renderlo politicamente e umanamente indecifrabile. La scelta d’essere ‘ubiquitario’, leader di governo e di opposizione, non ha convinto gli elettori. Il più serio pericolo che potrebbe a questo punto insidiarne la leadership del partito e a maggior ragione dello schieramento sono
dunque i crescenti dubbi circa il reale peso specifico dell’uomo. Alle sue spalle l’ombra di Giorgetti, sorniona eminenza grigia, è sempre più ingombrante e in grado di postare significative pedine come
l’imprenditore Damilano che, in quota Lega, ha reso contendibile al Pd la roccaforte di Torino. Andrà al ballottaggio sostenuto dagli stessi imprenditori che nel 2016 gravitavano adoranti intorno all’astro nascente della Appendino.

Dunque, situazione quanto mai fluida e dinamica lungo il versante destro dello schieramento di centrodestra. Meloni sempre più calata nel ruolo di dura e pura Vestale dell’antisistema, Salvini in
difficoltà, Giorgetti che, a beneficio di chi ha orecchie per intendere, non perde occasione per rimettere in campo con nostalgica malizia i nomi di Sturzo, di Bossi e soprattutto la Questione settentrionale
incautamente archiviata a suo tempo da Salvini. Chi non muore si rivede. Un segno dei tempi?

 

Ada Ferrari

5 risposte

  1. Non c’e’ stato nessun dibattito o commento televisivo, tanto chiaro e trasparente come in realta’ spiega e riflette, Ada Ferrari. Complimenti.

  2. Ancora una volta concordo con le lucide e logiche argomentazioni di Ada Ferrari con la quale mi complimento. Aggiungerei che non vedo neppure questa eclatante vittoria rossa a fronte della debacle della destra. . Hanno espugnato fortezze già loro (o quasi). Il bilancio si farà tra due settimane. Certo se conquistassero anche Trieste…
    Il trionfo di Letta a casa sua, poi, neppure mi sembra un imprevisto e magnifico risultato.

    1. L’analisi di Ada Ferrari é corretta e puntuale. Aggiungo solo che in provincia di Cremona, in controtendenza rispetto al dato nazionale, il Partito Democratico ha perso. Sono clamorosi i ribaltoni avvenuti a Pieve San Giacomo e a Rivolta d’Adda. Nel Comune cremasco, dove il centrosinistra ha governato dieci anni, Giovanni Sgroi, candidato del centrodestra, ha battuto nettamente Elisabetta Nava. Più risicata, ma non meno significativa, la vittoria di Maurizio Morandi su Silvia Genzini a Pieve San Giacomo. Il gruppo dirigente del Pd provinciale dovrebbe riflettere.

  3. Analisi puntuale come sempre. Perché dovremmo dare fiducia a una politica che non c’è più? Inefficacia e populismo intrappolano una politica al traino di una tecnocrazia in cui la gente dimostra di credere con sempre maggiore convinzione.

  4. Grazie Ada dell’analisi impeccabile.
    Personalmente ritengo che sia folle non adempiere ad un fondamentale diritto democratico, il diritto di voto, che storicamente è stato conquistato a suon di guerre e morti.
    Certamente comprendo il disgusto dei cittadini italiani nei confronti della politica nostrana.
    Ma mi sorge un interrogativo…non è che così facendo non si faccia esattamente il gioco di chi ci vuole sudditi e non più cittadini?

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