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8 marzo. Speriamo che sia femmina

6 Marzo 2021

‘Speriamo che sia femmina’: una splendida Liv Ullmann commentava così la notizia che la figlia maggiore -Giuliana De Sio nel film di Monicelli dell’86- sarebbe di lì a poco diventata madre. Ragazza madre, più precisamente, il che in un borgo rurale di poche anime avide di fatti altrui  era scelta non priva di spine. Intorno al lungo tavolo della cucina, davanti a fumanti  ribollite di cavolo nero, sedevano solo loro, le donne di casa. Cena in famiglia dopo cruenta mattanza di mariti e amanti? Tutt’altro. A modo suo ciascuna aveva concesso alla controparte maschile la speciale pazienza che ogni donna adotta d’istinto qualora raggiunga una realistica idea della vita, dei suoi difficili equilibri e delle fragilità che, sotto l’armatura tirata a lucido, affliggono il cosiddetto sesso forte. Ad abbatterli ad uno ad uno, come inutili birilli di una vicenda scritta tutta al femminile, aveva in realtà provveduto la vita: un marito più dannoso che inutile, un amante di bassa lega, uno sciocco fidanzato, collezionista  maniacale di filastrocche contadine, un mondano scrittore con le paturnie della mezza età e un ego sterile quanto smisurato. Un solo maschio si salva dalla strage: il vecchio zio minorato che, perso nella sua giuliva demenza, sferruzza accanto alle donne con lo zelo di una vecchia massaia. Film splendido, omaggio senza retorica alla forza vitale delle donne che, a femminismo già imperante, proponeva una sua ipotesi intorno al mistero dei sentimenti e dell’eterno conflitto fra il maschile e il femminile. Se lo rivedano le attuali pasionarie delle quote rosa che girano con tanto di pallottoliere sotto braccio e tutto misurano con angusta contabilità spartitoria: se questo va al maschietto, questo ‘deve’ andare alla femminuccia. Per fortuna la storia, che di pallottoliere non ha bisogno, va dritta per il suo corso costruendo nei nuovi organigrammi planetari un potere femminile di tutt’altra natura: non concesso per obbligo contrattuale ma attribuito per schiacciante evidenza di meriti e storie personali. Era ora che da eccellenze femminili sudate e costruite palmo a palmo salisse un urlo tale da trapassare ogni sordità e abbattere ogni presunto diritto di prelazione maschile sui  piani alti del potere. Evviva allora la franchezza sanguigna, quasi brutale, con cui Giorgia Meloni ha liquidato la questione: riconoscimento di un diritto, non concessione in nome della parità di genere. Tradotto: afferriamo ogni occasione senza chiedere permesso, costruiamoci una storia  professionale a prova di bomba e, dopo, passiamo all’incasso. Fermo restando, beninteso, che dove all’uomo basta la sufficienza, dalla donna si esige l’eccellenza.                                                                                                      Le quote rosa, temporaneamente silenti, sono tornate a prepotente ribalta dopo le recenti nomine nell’esecutivo Draghi. E i più alti lamenti si sono uditi proprio a sinistra: al partito  si rimprovera di predicare bene e razzolare male in materia di parità di genere. Un fulmine in più sulla testa del disperato Zingaretti che, attaccato ormai da forze di terra, di aria e di mare, nel fervore dei  mea culpa precedenti le dimissioni, giurava di fare del Pd il protettore di ogni diseredato: precari, donne, migranti, accorrete ai piedi del gigante buono e sarete vendicati di ogni afflizione. Dalle eredi di Nilde Jotti ci aspettavamo qualcosa di più forte e meno burocratico di un  protocollare appello alle gerarchie del Pd. Chiaro che ormai quella è la china lungo cui scivola il postcomunismo: ridursi a rigido apparato di sistema, estremo rifugio di ogni superstite paternalismo.            Ma  dobbiamo pur riconoscere che qualche sorriso l’accoppiata fra quote rosa e cosiddetta violenza di genere riesce a strapparlo anche in tempi grami come questi.. Sia chiaro, il tema ha un versante drammaticamente serio: la recrudescente  violenza sulle donne spesso conclusa in tragedia. Troppo serio, appunto, per imparentarlo e confonderlo con le storielle e storiacce che, travestite da violenza di genere, da qualche anno ingombrano le cronache, adeguatamente irrorate di tardive lacrimucce verginali e pruriginose speculazioni mediatiche. Dive e divette sul viale del tramonto riguadagnano attenzione ricordandosi improvvisamente che quarant’anni prima il regista tal dei tali in casa del produttore tal dei tali si permise di allungare le sue mani di orco stupratore sulla innocente colomba. Liquidarlo con uno schiaffone, spifferare a mamma, papà, carabinieri? No. Meglio custodire il tragico segreto per qualche decennio e metterlo su piazza  quando il mercato è ghiotto del prodotto.                                                                                                    Certo, la parola ‘violenza di genere’ ha una potenza di fuoco ideologico che sbaraglia e destina al linciaggio ogni ipotesi alternativa: per esempio che ancora e sempre le avances di un lui gradito si chiamino seduzione e quelle di uno sgradito molestie. E allora, giusto per reagire a tanta melassa tardo femminista e neoverginale, inventiamoci un 8 marzo di autentico disordine creativo. Due esempi a caso: Rocco Casalino, furbastro factotum di Conte, ci affligge da mesi colla biografia della sua travagliata identità sessuale. Quota azzurra o quota rosa? La neoministra Gelmini: è palesemente donna ma da decenni ha immolato la sua garbata insignificanza a maggior gloria del Cavaliere. Si è completamente immedesimata in lui, parla, pensa, combatte in suo nome. Quota rosa o quota azzurra?  Un’intelligenza indocile -purtroppo latitante  fra le più accese vestali delle quote rosa- dovrebbe rendergli evidente il paradosso: secoli per scrollarsi di dosso quello stesso paternalismo maschile che oggi si esige, con tanto di contratto nero su bianco,  scambiandolo per grande vittoria di parità.                                        Quando ottenni una cattedra universitaria dopo un concorso impietoso come una tonnara, le quote rosa erano di là da venire. Per fortuna: al sospetto di aver vinto per… ’quota ricevuta’ avrei sbattuto la porta in faccia ai benefattori.. Che le quote rosa incautamente salutate come la Madre di tutte le battaglie non rinchiudano il prezioso potenziale del talento femminile  nell’umiliante  perimetro di una nuova riserva indiana!

2 risposte

  1. Che la donna sia diversa dall’uomo sul piano fisico è ovvio. Uno studio americano sostiene che la donna anche pensa in maniera diversa rispetto all’uomo. Magari con più intelligenza. È possibile. Allora siamo noi maschi a chiedere la parità di genere. Io, che dal 1954 sono al servizio della donna, sono per la superiorità delle donne. Sono il sesso forte, molto forte.

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