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Giornata del malato, la cura comincia dalle relazioni

10 Febbraio 2024

La malattia somiglia ad una bolla di cristallo. Invisibile ma resistente, tende ad isolare chi la vive e indebolisce la rete di relazioni che fino a quel momento caratterizzava la vita quotidiana. Chi soffre, spesso non si sente capito da chi gli sta accanto. L’ha ricordato in questi giorni il pianista e compositore Giovanni Allevi, a due anni di distanza da una durissima diagnosi di mieloma multiplo cronico, un tumore al midollo osseo, che non gli ha impedito di esibirsi sul palco di Sanremo 2024. «Adesso sono come un reduce – ha ricordato sul palco – tormentato dalle ferite e dagli incubi, ma un passo alla volta, eroicamente, sto uscendo dall’inferno. La mia condizione mi conferma che esiste un mondo, fatto di umanità, gentilezza, autenticità e coraggio».

In occasione della XXXII Giornata Mondiale del Malato (11 febbraio 2024), tre pazienti dell’ASST di Cremona e una caregiver hanno accettato di condividere la propria esperienza, raccontando quanto in questo contesto siano importanti le relazioni e quanto a volte sia difficile averne cura, soprattutto quando si affrontano patologie croniche o invalidanti.  Ad accomunarli, la consapevolezza che la malattia è un fatto strettamente personale, ma non può essere gestito senza il sostegno e la vicinanza degli altri, che si tratti di operatori sanitari, familiari o persone care.

LA SOLITUDINE DI CHI SOFFRE

La solitudine è un sentimento molto comune in chi convive con una patologia, soprattutto se cronica o invalidante. Come spiega Jessica Saleri, psicologa clinica e psicoterapeuta all’ospedale di Cremona, «A differenza di reazioni come paura, ansia, depressione, rabbia, ostilità, invidia, senso di colpa e d’ingiustizia, che in genere accompagnano le prime fasi della malattia, la solitudine insorge più tardi, come risposta ai limiti che la nuova condizione comporta».

A volte il malessere fisico o psichico porta il paziente stesso ad isolarsi, «Perché non si sente più come prima – prosegue la psicologa – si sente arrabbiato e inadeguato, soprattutto quando si tratta di partecipare ad attività sociali. In altri casi subentra un senso di protezione verso le persone care, per non caricarle di angoscia e preoccupazione; così la persona nega il bisogno di affetto e vicinanza, prendendo le distanze».

La malattia impatta anche sulla cerchia degli affetti: «Spesso amici e familiari fanno fatica ad affrontare la malattia di una persona cara e tendono a prendere le distanze. Il supporto psicologico può essere un valido aiuto, sia per combattere l’isolamento sia per dare una chiave di lettura diversa alle reazioni con gli altri». Parlarne è il primo passo, così come condividere il percorso con i propri cari o altre persone che affrontano le stesse battaglie. Per ricordarsi che la vera forza è non essere soli.

COMBATTERE UN TUMORE

«IL CANCRO FA PAURA, PER QUESTO BISOGNA PARLARNE»

«È difficile descrivere ciò che attraversa la mente e il cuore delle persone malate di tumore». Maddalena frequenta il day hospital oncologico di Cremona da tre anni. Nel 2020 la diagnosi di cancro ovarico, trattato con una prima chemioterapia e un intervento. «Sembrava che le cose andassero bene – racconta – poi la recidiva…E sono ancora in ballo». Oggi prosegue le cure oncologiche, affiancata dal personale dell’Oncologia (diretta da Matteo Brighenti).

«Il tumore è una malattia che spaventa, perché fa pensare alla morte. Chi ci sta vicino spesso tende a sottovalutarla, a prendere le distanze, a negare il problema…È un meccanismo di difesa, per non affrontare una realtà che fa paura. Evitano di chiederti come stai, e forse nemmeno tu hai nemmeno voglia di raccontarlo, per non farli preoccupare». I momenti peggiori sono scanditi dalla chemioterapia, «per la sofferenza fisica e mentale che comporta – prosegue la donna – Quando vado a farla, spesso vedo attorno a me sguardi tristi, persone raggomitolate su loro stesse. Il mio consiglio è semplice: parlatene, dite che avete il cancro e che vi state curando. È liberatorio, aiuta gli altri a sentirsi coinvolti e ad accettare la malattia, che spesso anche in famiglia è un tabù».

Per Maddalena, la psicoterapia è stata una valida alleata per curare le relazioni, partendo da sé stessa. «Ho capito che dovevo riprendere in mano la mia vita, ripartendo da ciò che mi fa stare bene. Devi scegliere le relazioni che ti sostengono senza compassione gratuita». Allo stesso modo, confrontarsi con chi condivide la stessa sorte può aiutare a sentirsi capiti e meno soli. «Non si sa chi vincerà questa battaglia, ma chiudersi in sé stessi significa arrendersi in partenza, e perdere anche i momenti in cui potresti stare bene».

CONVIVERE CON LA DIALISI

«È IMPORTANTE NON ABBATTERSI E GIOIRE DELLE PICCOLE COSE»

Sandro conosce la dialisi da 38 anni. La sua storia inizia nel 1986, a soli 37 anni, per un’insufficienza renale. Nel 1988 riceve un trapianto di rene da un donatore quindicenne: «per 32 anni ho vissuto una vita normalissima – racconta – sono appassionato di bicicletta, ho ripreso a pedalare, ad andare in montagna… Se non avessi detto di essere un trapiantato nessuno si sarebbe accorto della differenza». Il suo destino cambia nel 2020, quando per alcune complicanze perde l’organo trapiantato e torna in dialisi, seguito dagli specialisti della Nefrologia di Cremona (diretta da Fabio Malberti).

«Sto facendo tutte le visite necessarie a rientrare in lista d’attesa per un nuovo trapianto – racconta – nel frattempo cerco di convivere con la malattia nel miglior modo possibile». Da vent’anni è in pensione: «Ormai la dialisi è diventata un secondo lavoro – prosegue – scherzando mia moglie mi chiede “Sei di turno oggi?”, è un modo per alleggerire la situazione». Allo stesso modo, nei giorni liberi Sandro si dedica a svariati hobby, compresa la bicicletta, per mantenersi in buona salute.  La relazione con gli altri è ciò che fa la differenza: «La famiglia deve essere il tuo punto di riferimento- aggiunge – io posso contare su mia moglie, mio figlio e la sua compagna, che per qualsiasi necessità non si tirano mai in dietro».

A chi condivide il suo destino, Sandro risponde con ottimismo: «Bisogna penderla con filosofia! Se una persona si abbatte, la malattia non diventa solo sua ma anche di tutta la famiglia. È importante non ingigantire le cose, per farla pesare il meno possibile. Soprattutto, ricordarsi di gioire delle piccole cose, come vivere nella propria casa e dormire nel proprio letto». Per trovare bellezza anche in ciò che sembra scontato.

AFFRONTARE IL GLAUCOMA

LA FIGLIA: «PER QUALSIASI COSA CI SIAMO NOI»

Piero è uno dei pazienti dell’ambulatorio Glaucoma all’Oncologia dell’ospedale Oglio Po (diretta da Giovanni Vito). La sua storia con la malattia inizia circa vent’anni fa, nei quali si sono susseguite tre operazioni, «nonostante gli occhi siano solo due», commenta la figlia, che oggi è per lui un punto di riferimento fondamentale. La malattia è progredita negli anni, fino a compromettere quasi completamente la capacità di distinguere le immagini».

Questa condizione ha cambiato radicalmente il modo odi relazionarsi, a partire dall’autonomia: «È sempre stato un uomo molto indipendente – prosegue la figlia – Ora la casa è l’unico luogo in cui si muove da solo, altrimenti dev’essere sempre accompagnato. Ha smesso di uscire, di andare al bar…Per un po’ l’abbiamo portato a giocare a carte con gli amici, ma non riusciva a vedere e s’innervosiva. La sospensione della patente di guida ha segnato il periodo peggiore…Era molto arrabbiato, non voleva accettarlo. Così in famiglia abbiamo dato tutti la nostra disponibilità, l’avremmo portato ovunque. Sentirci vicini l’ha tranquillizzato».

A parte la famiglia, le relazioni con il mondo esterno si sono allentate: «Gli altri fanno fatica a capire – prosegue la figlia –. Noi cerchiamo di stargli vicino e di accontentarlo in qualsiasi modo gli abbiamo procurato degli occhiali apposta per vedere la televisione, anche se ora la sua passione è ascoltare le partite di calcio con le cuffie».

Nonostante le difficoltà, il sostegno delle persone care ha riservato anche momenti di gioia quasi inaspettata: «L’anno scorso ha voluto accompagnarmi all’altare – ricorda la figlia – ha camminato con me in mezzo ad un prato…Avevo mille paure, ma lui era tranquillo, emozionato e felice di essere al mio fianco. Quando riguardo i video e lo vedo camminare così, non mi sembra vero».

“QUESTO NON È SOLO UN BISCOTTO, MA UN ABBRACCIO”

In occasione della Giornata Mondiale del Malato, domenica 11 febbraio 2024 tutti i pazienti ricoverati all’Ospedale di Cremona e all’Oglio Po riceveranno un pensiero speciale. Sul vassoio del pranzo di Natale ogni degente troverà in dono un biscotto, accompagnato da un biglietto con la scritta: “Questo non è solo un biscotto, ma un abbraccio”. L’iniziativa dell’Asst di Cremona è realizzata in collaborazione con Cirfood, gestore del ristorante aziendale che si occupa dei pasti destinati a degenti e dipendenti ospedalieri. Un modo per “curare il malato, curando le relazioni”.

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