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Harriet, il biopic della schiava nera in fuga

12 Marzo 2021

Se è vero che la lingua batte dove il dente duole, allora sarà per questo che il cinema americano moltiplica la realizzazione di film incentrati sul problema sociale (e sull’angoscia esistenziale) di essere neri, sia nella quotidianità, sia nel ricordo di un passato di schiavitù.

Hollywood è stata per lungo tempo la fabbrica dei sogni, ma in un periodo in cui sognare diventa un lusso o un’assurdità, ha assunto anche il ruolo di coscienza critica di un paese le cui piaghe sociali appaiono in piena evidenza e sono la causa di infinite tensioni. Con tutto questo, però, la Mecca del cinema non rinnega la sua vocazione originaria, che è quella di interessare, appassionare, intrattenere.

La premessa vale come primo approccio al film Harriet di Kasi Lemmons, un biopic decisamente romanzato su un personaggio storico che è stato finalmente sottratto alla polvere del passato. La protagonista, Harriet Tubman è una schiava fuggitiva che si vede smembrata tutta la sua famiglia, venduta a diversi compratori e si ribella all’imposizione del suo padrone che non vuole concederle, come sarebbe suo diritto, la libertà. Tenta fortunosamente la fuga, riesce ad approdare ad una città, Philadelphia, che ospita schiavi fuggiaschi e col tempo si trasforma in Moses, una sorta di primula rossa di colore, che organizza e porta a compimento decine di fughe clandestine dei suoi confratelli. Aiutandoli a fuggire dagli stati del sud a quelli del nord, contribuì a costruire una “ferrovia sotterranea”, che consentiva il passaggio clandestino degli schiavi in una zona dell’America più tollerante.

Come si diceva, Hollywood non si smentisce: Harriet si regge sopra un racconto appassionante e coinvolgente, che non priva gli spettatori di nessuno dei passaggi che si attendono da un film. Un esempio per tutti: l’incontro – scontro finale tra la donna e il cattivissimo ex padrone che la perseguita e ne esce sconfitto da tutti i punti di vista. Non manca però, in questo caso, una nota piuttosto originale: tocca alla donna il trionfo nell’uso delle armi e nella generosità che abitualmente è appannaggio dell’eroe maschio.

Harriet intriga, però, anche perché si sforza (nei limiti appunto del biopic hollywoodiano) di entrare nella mentalità e nella cultura della popolazione nera, non solo ricorrendo largamente, nella colonna sonora, agli spirituals che servivano agli schiavi anche come modo per comunicare messaggi che i padroni non dovevano intendere. La protagonista, infatti, è dipinta anche come una sorta di sciamano che, caduta in trance, entra in comunicazione con la divinità, può vedere il passato e il futuro, evitare i pericoli e beffare gli inseguitori. La sceneggiatura illustra insomma quegli elementi magico – rituali che certamente facevano parte dell’orizzonte culturale dei neri d’America (ereditati, forse, dalle loro radici africane e tribali). In questo modo, la regista può prefigurare anche, nella visione di Harriet, la liberazione dei neri da tutte le schiavitù: un evento futuro, desiderato, ma non ancora  realizzato in questi tempi infelici.

 

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