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Ho conosciuto centinaia di malati di cancro: da loro ho imparato la dignità

23 Giugno 2022

Giovanni Allevi ha un tumore. È una notizia riportata quasi ubiquitariamente dalla carta stampata, ripresa dai social. Prima di lui un universo di personaggi famosi dello spettacolo, della politica e della scienza. Ciascuno a suo modo ha voluto lasciare una testimonianza, anche pubblica. Oppure un monito, come Yul Brynner, morto di cancro al polmone nel 1985, che in un video postumo raccomanda di non fumare. Giovanni Allevi ne parla sui suoi profili social accanto ad una foto che ne ritrae le mani mentre traducono in note sul pentagramma il nome della malattia.  Dispiace. Superato il dispiacere ciascuno di noi torna alla propria quotidianità perché, in fondo, il cancro ce l’ha lui. È un modo cinico e molto sbrigativo per discostarsi dal problema perché la vita continua. E la nostra, si spera, in salute.

Nel 2020 i nuovi casi di tumore nel mondo assommano a circa 19,3 milioni e i decessi a circa 10 milioni. Solo una piccola parte di sfortunati ha lasciato un messaggio al mondo (meglio così, non avremmo saputo dove metterli), mentre la maggior parte ha deciso di vivere nel privato il proprio dramma. Chi ha deciso di rendere pubblica la notizia lo ha fatto per una ragionevole forma di esorcismo: la morte è sempre stata un tabù e il tumore, molte volte, purtroppo, ci va a braccetto. Nessuno infatti penserebbe mai di comunicare al mondo di avere le emorroidi perché, anche se condizione molto fastidiosa, è una malattia che non porta a morte e non traduce in spettacolarizzazione la notizia.

Quel che manca nel rendere pubblica la notizia di un tumore è la dignità. Ho conosciuto molto da vicino centinaia di persone malate di cancro, alcune fortunate, altre meno che hanno dovuto accettare il lungo calvario della sofferenza. Da loro ho imparato la dignità. I lunghi silenzi, lo scambio furtivo di sguardi, la preoccupazione per i familiari e la paura per l’ignoto raccontavano quel dramma con dignità. Non c’era bisogno di dare in pasto a chicchessia il proprio dolore, perché tanto non sarebbe cambiato nulla, né la paura, né la speranza. La notizia come arriva passa. La curiosità dura poco, la solidarietà anche meno. Un like e la coscienza è appagata.

 

Fernando Cirillo

5 risposte

  1. La domanda da farsi è su cosa percepisce del dolore chi ascolta, che é altro rispetto a chi sente. Anche il silenzio ci parla, ma non a tutti basta per capire.

  2. Ho letto il suo commento. Il paziente neoplastico, dopo la malattia, si trasforma in marziano perché in testa gli crescono due belle antenne. Che gli servono per comprendere quanta sia la sensibilità e la disponibilità al dialogo della persona che ha accanto, non necessariamente il medico e l’infermiere che lo stanno seguendo. In questi casi i silenzi fanno più rumore di qualsiasi parola. Il dolore non è quello fisico ma quello che il paziente si porta dentro. Bisogna imparare a conoscere la lunghezza d’onda che il paziente utilizza per comunicare. Il paziente potrebbe non voler conoscere nulla del suo problema, cosa che va rispettata. Il paziente, al contrario, vorrebbe sapere tutto ma chiede leggerezza nelle nostre risposte perché la misura potrebbe essere già colma e la capacità di accettazione esaurita. In sostanza, tentando di rispondere al suo commento, bisogna avere grande sensibilità e disponibilità d’animo, cosa che nelle varie università non insegnano perché son cose che non si possono trasmettere. Te le porti dentro come dote e ne fai uso nel modo migliore quando ve ne sia bisogno.
    Potrei raccontarle centinaia di aneddoti, ma il soggetto dell’articolo non sono io, ma il tumore.
    Spero di aver risposto al suo commento e la ringrazio.

  3. Dignità, vivere il proprio dolore e la paura con dignità. Che non significa non avere cedimenti e comprensibilissimi momenti di grande difficoltà. I personaggi conosciuti che decidono di condividere il loro percorso pubblicamente sono ormai moltissimi. Avendo molto seguito è importante la loro testimonianza, soprattutto in fatto di prevenzione e di rispetto di quei comportamenti che si sa perfettamente che innalzano la soglia di rischio. In realtà dovrebbero essere d’esempio quando stanno bene, invece purtroppo ci sono ‘artisti’ che spesso inneggiano al consumo di alcool e droghe, al fumo e così via diventando idoli di ragazzotti irresponsabili…

  4. Gentile Signora Pieri, concordo pienamente su tutto. Quando il protagonista di una malattia incurabile, o comunque di un evento drammatico, è un personaggio pubblico, è difficile comprendere le motivazioni che portano alla personale divulgazione della notizia. Per buona parte credo che la prima fra le motivazioni sia il tentativo di esorcizzare la paura per le sofferenze e per la morte; al contrario, dal lato opposto, vedo la spettacolarizzazione della notizia soprattutto quando le opportunità di guarigione si presentino subito concrete o quando i danni che un evento infausto ha procurato siano contenuti. La pubblicità non ha regole, neppure etica: tutto quanto fa spettacolo. Le antenne ce le possiamo procurare anche noi per riconoscere fra le righe – magari non immediatamente – l’onestà di chi trasmette la notizia. Certo, quando il personaggio ha un passato non integerrimo (ne abbiamo numerosi esempi: ma anche nelle nostre comunità, senza scomodare i volti della notorietà) viene spontaneo pensare: “Ghe vist chel semo?”, con un certo senso catartico. Che in sé sarebbe un comportamento da censurare, ma serve per desacralizzare il personaggio, pubblico o privato che sia, e per sentirci un po’ meglio. Condivido con lei che le nuove generazioni hanno certamente bisogno di esempi fortificanti, purchè sinceri. Il tema della malattia, della sofferenza e della morte credo siano un utile volano per crescere.

  5. Carissimo già ci siamo confrontati ,di persona su questo argomento trovandoci in sintonia. Pare proprio che la condivisione social, dal compleanno della zia Sofonisba alla disgrazia più pesante, sia ormai imprescindibile, una sorta di riaffermazione di esistenza in vita.

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