Purtroppo le “sospensioni” della Guardia Medica e la conseguente difficoltà degli assistiti del territorio non riguardano esclusivamente il Cremonese, visto che la ridotta disponibilità dei medici pare essere ormai un problema molto diffuso anche in altre regioni. Solo per fare un esempio, la Regione Calabria si è recentemente attivata per inserire medici cubani nella propria organizzazione di sanità pubblica, senza peraltro accorgersi di avere molti più medici in rapporto alla popolazione rispetto a tutte le regioni del nord. In attesa che i vertici delle sanità regionali siano in grado di capire se i medici mancano oppure no, la narrazione corrente sostiene che tutti i problemi della Sanità dipenderebbero dalla mancata liberalizzazione degli accessi alla facoltà di medicina. Basterebbe quindi aprire gli accessi alle Università per risolvere tutte le attuali difficoltà (ovviamente non prima di una decina d’anni).
La realtà ci racconta invece una storia molto diversa, visto che in Italia, secondo i dati OCSE ed Eurostat (aggiornati all’anno scorso), se è vero che abbiamo molti meno medici di Grecia, Portogallo, Lituania, Cipro e un po’ di meno rispetto alla Germania, ne abbiamo molti di più rispetto ad Olanda, Francia, Belgio e Regno Unito. Anche il numero dei medici di medicina generale è superiore rispetto a Germania, Austria e Svezia e Regno Unito, pur se gli italiani sono in genere più anziani. Se quindi i medici non mancano, perché se ne trovano sempre meno nel Servizio Sanitario Nazionale? I responsabili della sanità pubblica rimangono sorpresi dal fatto che nessuno partecipi ai concorsi per medico ospedaliero, specie in situazioni periferiche e scarsamente attrattive in ambito di ricerca e forse non hanno ancora capito che anche i medici ormai si stanno stancando di turni impossibili, paghe da terzo mondo, burocrazia fuori controllo, assenza di coinvolgimento nelle scelte operative, direttive regionali spesso incomprensibili e/o inattuabili, richiesta di obbedienza pronta, cieca ed assoluta ai vertici sanitari per arrivare infine al rischio reale di denunce e sganassoni da parte della “clientela”.
Se però oggi fare il medico ospedaliero è diventata un’attività rischiosa, faticosa, malpagata e subalterna a decisori della cui competenza è talvolta lecito dubitare, anche il medico del territorio non è che se la passi tanto bene.
Al di là del comune contesto generale, l’attività del medico di famiglia, oltre ad un carico assistenziale elevato, presenta un impegno amministrativo e burocratico talmente insostenibile da convincere ad abbandonare la professione il più in fretta possibile, magari con pensioni sempre più anticipate oppure scegliendo altre attività. Se a questo si aggiunge la perenne e cronica convinzione, da parte delle autorità sanitarie regionali, che gli operatori della salute siano poco più che carne da macello e che vadano trattati da servitori e non da protagonisti della sanità, allora si arriva a comprendere come mai i medesimi vertici sanitari si accorgano che i medici vanno in pensione solamente dopo la comunicazione delle loro dimissioni. Facile immaginare quello che potrebbe succedere in qualsiasi altra organizzazione di lavoro se si arrivasse al pensionamento del personale senza accorgersene prima e senza adeguata e previdente pianificazione delle sostituzioni.
Sembra incredibile, ma purtroppo la sanità pubblica è anche questo. E’ possibile quindi ipotizzare una situazione ancora peggiore nel prossimo futuro, vista l’età media degli operatori sanitari. In definitiva stiamo assistendo ad una condizione di sanità pubblica che sta andando del tutto fuori controllo e nella quale, invece di analizzare i problemi e trovare soluzioni, ci si limita da un lato a fornire un elenco delle difficoltà (quasi come se nessuno fosse pagato per affrontarle e risolverle), dall’altro a procedere con inutili annunci a sensazione. Parlare oggi di “one health”, di nuovi ospedalini e nuove case di comunità mentre gli operatori, solo loro, fanno fatica a tenere in piedi l’intera struttura sanitaria ricorda forse una canzone del passato: “tutto va ben, madama la marchesa”, al cui testo probabilmente molti dei vertici della Sanità si stanno ispirando ed alla quale si rimanda per inquadrare correttamente il momento attuale della sanità pubblica italiana.
Pietro Cavalli
2 risposte
Io sono anche abbastanza d’accordo con le affermazioni contenute in questo articolo.
Però dovremmo deciderci ed assumere una volta per tutte un atteggiamento univoco sul “pubblico”. Perché le stesse identiche considerazioni si potrebbero fare per gli architetti che lavorano negli uffici tecnici dei Comuni o per gli ingegneri, i geologi o i biologi che operano nelle Province (e che portano sulle proprie spalle molte più responsabilità e carichi di lavoro di quelli che la vulgata diffusa immagina ed è usa invece a denigrare).
Anche in quest’ambito (come in molti altri della pubblica amministrazione) i tecnici vedono da anni poco e malissimo riconosciute le proprie competenze e ancor meno ripagate le responsabilità e le rogne che sono costretti ogni giorno ad assumersi.
Anche lì si sono per anni bloccate le assunzioni e i turnover, fino ad avere personale anziano, spompato e poco tecnologico.
Anche lì sindaci e presidenti sono costretti ad operare con personale ridottissimo e faticano terribilmente a far fronte alle mille-e-una necessità a cui ogni giorno una pubblica amministrazione deve invece far fronte.
Allora i casi sono due: o investiamo sulle PA (sanità, formazione scolastica, Comuni e Province in primis, che sono enti tutt’altro che inutili…) per riqualificarle, potenziarle e far sì che possano offrire servizi adeguati alla popolazione, dotandole di tecnologia e formazione, ma anche (e soprattutto) di personale motivato e adeguatamente stipendiato, oppure continuiamo a palare “fango” su tutto ciò che è pubblico e a riprodurre la narrazione vergognosa che tutti (da Brunetta a Di Battista, Renzi e Delrio) hanno negli ultimi 25 anni propagandato, invocando tagli e spending review come se solo a quel comparto fossero attribuibili tutti i mali del paese… (PS: non all’evasione fiscale, non alle truffe, non alle millanta aziende e società con sede alle Cayman e non anche a chi ha delocalizzato dall’oggi al domani attività in Tasmania…).
Non era mia intenzione affrontare l’enorme problema rappresentato dalla gestione, dalla struttura, dalle competenze, dal personale, dalle efficienze/inefficienze del Servizio Pubblico, ma solamente segnalare uno dei motivi (non l’unico) di una probabile transizione dalla Sanità Pubblica a quella privata. Quando i sanitari abbandonano la Sanità Pubblica, di fatto i confini con quella privata diventano molti incerti. Non so se questo sia un bene o un male in termini di salute. Se però il Servizio Sanitario Nazionale, pagato con le tasse dei cittadini onesti, non è in grado di svolgere le proprie funzioni, allora l’assistenza sanitaria la dobbiamo pagare due volte: la prima con le tasse e la seconda per ottenere la prestazione. Che poi non ci siano i soldi per migliorare la situazione economica del personale e invece si progettino nuovi ospedali dall’incerto destino ma dai costi sicuri e non indifferenti è un ulteriore elemento sul quale riflettere.