Era un sogno ricorrente. Lavorava ancora in quel palazzo governativo, che tanto aveva imparato ad amare. Era un palazzo del 1500, guarnito di decorazioni scultoree e pittoriche più recenti, che conferivano agli ambienti un’aria razionalista, austera, persino fascista, tranne alcuni uffici dirigenziali che avevano arredi settecenteschi. Una sontuosa scalinata con un tappeto rosso conduceva ai piani di rappresentanza. Erano locali ampi e spaziosi. Non erano luoghi esteticamente attraenti. Ma Amelia aveva talmente adorato il suo lavoro da amare, per proprietà transitiva, ogni realtà vivesse lì dentro: colleghi, superiori, visitatori, le stanze, gli arredi, le orrende boiserie, i broccati verde veneziano, un’accozzaglia di stili e influenze. Era il suo
mondo, l’aveva preso terribilmente sul serio e il suo inconscio a distanza di anni non cessava di lanciare allarmi.
Ma come, ti pagano per lavorare e tu non vai al lavoro? Di notte, nel sonno più profondo, si innescava l’imperativo categorico, quasi in dialogo con un super io, altrettanto intransigente. Ma non vai a lavorare? Ti pagano.
Ma come mi pagano, io non lavoro più in quel palazzo? L’obbligo morale la obbligava in sogno a cercare di ricucire il filo con il suo lavoro, con le persone, anzitutto, ma non conosceva nessuno.
Girovagava per i corridoi, cercava volti noti, ma erano tutte comparse, fantasmi, di un film irripetibile. Tema fisso dei sogni ricorrenti era trovare l’ufficio. Quando ci riusciva, il computer era vecchio, una volta era un video da sala giochi in Riviera, altre volte ancora era inutilizzabile, oppure c’era una scrivania vuota, oppure era occupata. Un incubo. Era impossibile rispettare il suo ordine morale. Poi nessuno parlava con lei. Del resto era un’estranea. Non sapevano nemmeno esistesse. In sogno non c’era nessun riferimento reale, le persone erano sparite: come evaporate.
L’ultima volta che il sogno si affacciò prepotentemente, era una sera tranquilla, era a dieta, quindi aveva mangiato una ricottina con il finocchietto cotto, nulla avrebbe fatto presagire un epilogo così assurdo. Vagava alla ricerca del suo ufficio, corridoi, stanze immense, impiegati ventre a terra, intenti al lavoro, non sapeva bene dove cercare, perché aveva cambiato ufficio tre volte, mentre lavorava. Alla fine la ricerca si concentrava sempre nell’ufficio che aveva occupato più a
lungo. Quella notte, dentro quel sogno allucinante, aprì la porta del suo ufficio e trovò una famigliola intenta a guardare la televisione. Shrek e Fiona, due maschietti (Farkle e Fergus) e una femminuccia (Felicia). Hanno affittato il mio ufficio, altrimenti non si spiega, cercò di razionalizzare. Era sconvolta. A questo giro non era possibile entrare, scrivere due righe al computer, fare un piccolo comunicato, trovare i giornali per la rassegna stampa. Niente. La stanza aveva cambiato destinazione d’uso. Amelia scappò via inorridita. Decise di uscire, trafelata, passando dalle sale di rappresentanza, l’uscita di servizio non era sicura, ma poi chissà se c’era ancora in questo palazzo che era diventato per lei inospitale e cattivo. Quando arrivò nell’atrio sbucò fuori lateralmente dall’Ufficio di Presidenza un ragazzotto simile, ma più giovane, al Dirigente che aveva avuto gli ultimi anni che aveva lavorato a palazzo. Questo avatar del Portavoce, era un condensato di cortese falsità. Le sorrise con il sorriso affettato che hanno certi politici alle prime armi ed esclamò: “Ciaaaaao!” “Sono Maicooool!”. Sculettava, inarcando la fascia lombare. Era fiero del suo ruolo. Gongolava. Amelia voleva solo scappare. Raggiunto l’atrio cominciarono a frusciare persone in abiti settecenteschi in maschera. Abiti lunghi, broccati, passamanerie, mascherine con il pizzo, scollature generose, bottines con tacco a rocchetto, parrucche alla Marie Antoinette. Una scena rubata ad Eyes Wide Shut. Il peggior Carnevale di Venezia mai visto, in graziosa sintonia con gli arredi della Presidenza. Un presentatore con il microfono in mano stava decretando la maschera più bella, con interviste, ricchi premi e
cotillon.
Amelia uscì in fretta e convulsamente cercò la sua Citroën Pluriel arancione, decappottabile, salì, accese con foga e guidò dritta al mare. Il mare più amico. Ci voleva un bagno nell’Adriatico per scogliere le contratture sulla schiena di così tanti simboli tutti insieme. Via libera all’es.
Amelia spera di aver fatto pace con la ricotta, ma soprattutto con il suo passato.
Inconscio, fattene una ragione: il ballo in maschera finisce qui.
Francesca Codazzi
3 risposte
Bravissima!!
Bellissimo, brava Francesca. Come sempre del resto!
Bello e insolito!