I fondi del PNRR sono stati presentati come un vero e proprio elisir per il rilancio dell’economia
italiana. Tuttavia va anche ricordato che questi prestiti andranno aggiunti al debito. Sul deficit futuro peseranno i deficit correnti, generati dagli investimenti fatti. Che sia un debito sin dall’inizio, è confermato dal fatto che i 16 miliardi incassati ad agosto fanno già bella mostra di sé nelle statistiche del debito pubblico. A fondo perduto? Ma così ovviamente non è per i soldi del Recovery Fund. Non lo è come è lapalissiano per i prestiti, ma non lo è neanche per le sovvenzioni. Anche quei soldi, infatti, andranno restituiti a partire dal 2028 ed entro il 2058.
A tal proposito, a causa delle strette di bilancio, lo Stato ha dovuto tagliare la spesa pubblica in ogni settore (a parte gli armamenti) e questo da ben prima del PNRR. L’Italia è praticamente l’unico Paese della Ue che ha deciso di attingere a piene mani alla quota di finanziamenti che dovranno essere restituiti direttamente. Secondo i calcoli di Unimpresa, Germania, Francia e Spagna non hanno preso un euro di prestiti, limitandosi a utilizzare le sovvenzioni. Il Portogallo si è fermato al 16% della somma totale del suo Recovery Plan, mentre la Grecia è andata un po’ oltre, chiedendo una cifra pari al 41% del totale, ma in termini reali si tratta solo di 12,7 miliardi. E poi ci siamo noi, che invece abbiamo ritenuto opportuno spingerci fino al 52% dell’intero pacchetto. Il che non è proprio una buona notizia. Sui 235 miliardi di risorse complessive a disposizione, pari al 13% del Pil, dovremo restituirne di tasca nostra alla Ue oltre 122. Debito che va dunque ripagato. Tanto è vero che per ripagare questi contributi è stata prevista sia l’introduzione di nuove risorse proprie – nuove imposte a carico dei contribuenti italiani, quindi, una percentuale più alta di soldi che dovremo trasferire al bilancio dell’Unione e sul piatto va rimesso lo scongelamento (sospeso per covid) del famigerato ‘’Patto di Stabilità’’ a cui per quasi trent’anni tutto era stato sacrificato: diritti del lavoro, beni comuni, servizi pubblici e democrazia.
Il PNRR, per adempiere alle specifiche condizionalità imposte dall’UE, indirizza gli investimenti e i sussidi in via preponderante (circa il 57%) nei settori green e digitale, ma qui c’è da obbiettare.
Non fosse che l’art. 22 specifica che “a tal fine, gli Stati membri prevedono un sistema di controllo
interno efficace ed efficiente nonché provvedono al recupero degli importi erroneamente versati o
utilizzati in modo non corretto”.
Che cosa ha di ‘’green’’ il biogas/biometano? Assolutamente nulla. Vengono distratti dal fondo PNRR grandi somme per l’ammodernamento e la costruzione di impianti per la produzione di biometano/biogas con la giustificazione che ci dobbiamo sganciare dal gas russo, ma i numeri del MISE ci dicono esattamente il contrario. Dal 2021 siamo esportatori netti di gas verso l’UE, lo scorso anno il nostro Paese ha esportato oltre 4,5 miliardi di metri cubi di gas fossile: il triplo del 2021, 11,5 volte in più rispetto al 2005. Una crescita verticale che racconta la dinamica speculativa dell’ultimo biennio. Mentre i consumi interni sono calati del 10% rispetto al 2021 (https://dgsaie.mise.gov.it/bilancio-gas-naturale), l’UE ribadisce che i consumi devono calare (al 4/24) di un ulteriore 15%.
Lo shock dei prezzi dell’energia ha fatto decollare (senza sussidi pubblici, a differenza di una
decina di anni fa) le rinnovabili e l’efficientamento energetico (110% marginale finora). Allo stesso
tempo ha causato reazioni politiche che replicano con investimenti pubblici sul gas/metano/biogas/biometano. Poiché si tratta di una fonte energetica che ci espone a volatilità del prezzo – caratteristica tipica delle energie fossili -, ed è chiaramente in un trend di discesa strutturale della domanda. La IEA (Agenzia Internazionale per l’Energia) stima per l’Italia un calo del 4,5% all’anno della produzione elettrica a gas da qui al 2025.
Significativo notare lo scollamento tra dove vanno i soldi privati e le politiche annunciate. Mentre il Governo si appresta a mettere soldi sul gas, chiunque progetti un nuovo edificio o una
ristrutturazione importante lo fa perlopiù con sistemi senza utilizzo di gas. Pensare di investire nel biogas/biometano/gas (stoccaggi compresi) è intempestivo, non credibile ed economicamente temerario. Si tratta di un impegno infrastrutturale fattibile solo con soldi pubblici (anche quelli riconducibili a RepowerEU e PNRR), che se sprecati sul gas non saranno disponibili per altri usi.
A riprova di questo, nessun rigassificatore o interconnector da almeno un decennio si fa con capitale privato. Gli investitori non mettono soldi su un’industria in progressivo ridimensionamento a meno che non ci sia una garanzia pubblica. Ma usare denaro pubblico (o garanzie pubbliche) per nuove infrastrutture gas implica un rischio di responsabilità di danno erariale da parte di chi persegue questa strategia. La soluzione all’aumento dei prezzi dell’energia dunque non è alzarli ulteriormente (o impedirne una discesa rapida) con infrastrutture inutili da scaricare in bolletta (o sulle tasse, spostando il problema). Non si tratta nemmeno di rivoluzionare i mercati energetici europei. Infatti, se il prezzo del gas ha fatto alzare quello dell’elettricità la colpa è delle sovvenzioni del gas stesso.
La deduzione più logica è che gli impianti di biogas/biometano sono meramente speculativi,
sovvenzionati dal pubblico per arricchire il privato e ci obbligano come cittadini a subirne le
conseguenze ambientali, sanitarie e di degrado territoriale.
Maria Grazia Bonfante
coordinatore provinciale Salviamo il paesaggio cremonese, cremasco e casalasco
Ferruccio Rizzi
membro di Attac Italia
Una risposta
I biogas, come i pannelli fotovoltaici, sono stati realizzati prevalentemente “sfruttando” i sussidi (gse, etc), ma una volta finiti gli aiuti statali, casualmente hanno subito uno stop.