Il Bollettino del Mare

24 Maggio 2024

Le ante di legno furono spostate da una goccia di brezza fresca. Urtarono leggere contro il muro della casa. Il cambio di luce tra notte e giorno entrò così, di sottopiatto, nella camera di Giuseppe. Un filo di sole gli si depositò sul viso. Le palpebre si aprirono, piano. Gli apparvero le sue povere cose. Ne fu felice. Si sentì vivo. Libero di scorrazzare per la sua amata golena. La scuola era finita da giorni. Niente libri. Niente maestre. Niente compagni. Gioia immensa. Solo: lui. E il Po. Scese, in fretta, dalla camera da letto. Voleva arrivare, in cucina, prima di tutti, quel mattino.

Da qualche giorno, sulla credenza ereditata dai nonni, aveva adocchiato una radiolina. La usava suo padre, la domenica pomeriggio, per ascoltare i risultati delle partite di calcio. E la madre, nelle feste comandate, per seguire la messa del papa. Voleva, ad ogni costo, averla come compagna durante le sue solitarie scorribande in campagna. Aveva intuito che da quella scatoletta sarebbe uscito una sorta di genio della lampada e gli avrebbe illuminato la vita. Bevve, d’un fiato, un bicchiere di latte, lasciato la sera prima sul tavolone. Rubacchiò qualche biscotto raffermo. Fuggì, con il transistor ben stretto tra le mani. Si trovò nella grande corte. Teneva un passo svelto. Non correva. Voleva evitare sospetti da parte dei contadini appena usciti dalle stalle, dopo la mungitura notturna. Le ombre della notte si dileguavano nei fossi e sotto i filari di pioppi. In un attimo fu sullo sterrato che portava: da una parte alla carrozzabile, dall’altra alla golena. Si avviò verso il fiume. Solo quando fu sicuro che nessuno potesse più vederlo né sentirlo, azionò l’interruttore. Si sprigionarono rumori confusi.

Scariche elettriche. Musiche tronche. Ronzii sordi e monotoni.

Mosse pian piano una rotella. L’asticella di plastica arancione si posizionò su un numero. Uscì una
melodia leggera, quasi vacua. Simile a quella che il sacrestano suonava all’organo in chiesa.
Giuseppe si incamminò verso il sentiero che portava sulla sommità dell’argine. Due leprotti gli
tagliarono la strada, spaventati, a morte, dai rumori metallici usciti dalla scatola. Arrivato alla
sommità dell’alzaia, si diresse verso una penisola creata dalla biforcazione del manufatto. Sulla
punta estrema, sotto un salice vecchio di decenni, si contemplava il corso d’acqua in tutta la sua
grandezza. Sedette sotto i rami della pianta, sopra una pietra levigata. Al riparo del sole che ora
cadeva bollente su quelle terre. La musica si era, improvvisamente, trasformata in un suono di
campane; identico a quello del campanile del paese. “Adesso parlerà un prete”, pensò tra sé. Invece una voce stentorea e nasale annunciò: “Vi trasmettiamo il Bollettino del Mare”. Annunciò con tono ancora più austero. “Previsioni valide per le prossime dodici ore”. “Strano programma. Ma chissà com’è veramente il mare”, si interrogò. Del resto nella sua vita più corta di un decennio, al mare proprio mai c’era stato. Ne aveva sentito parlare. Aveva visto fotografie, in bianco e nero.
Ricordava qualche cartolina, appesa all’osteria del paese. Nient’altro. Per lui era solo parole. Un
pezzo di carta. Un blu sbiadito sulla cartina geografica appesa nell’aula della scuola. Le prime
espressioni di quel racconto gli sembrarono di una lingua straniera. Millibar, alta e bassa pressione, rosa dei venti: mai sentite prima. Tutto gli era sconosciuto. Incomprensibile. Poi la voce iniziò a raccontare di luoghi lontani: Mar di Corsica, Mar di Sardegna, Mar Ligure, Mar Tirreno, Canale di Sicilia.

Su uno c’era sereno. Sull’altro poco nuvoloso. Sull’altro ancora pioggia; probabile tempesta. Non
mancavano i venti. A Giuseppe sembravano forti e robusti; al punto di arrivare sino sul suo fiume.
Soffiavano da ogni parte: Sud – Sud Ovest, Nord – Nord Est. Da Sud a Nord, da Est a Ovest:
ininterrottamente. Un vero bailamme fatto di bufere pronte a scatenarsi in qualsiasi momento; di
giorno e di notte. In quell’esatto istante la sua immaginazione cominciò a viaggiare. A briglia
sciolta. Sulle acque della Corsica fantasticò di un vascello di pirati veleggiare, sotto un sole caino,
verso terra. Di soldataglia pronta a sbarcare e con le scimitarre nelle mani; come letto nei libri
d’avventura della biblioteca scolastica. Sotto leggere nuvole bianche del Mar di Sardegna,
immaginò una lunga e sottile barca di popoli antichi. Era sicuramente partita da un meraviglioso
porto orientale. Pieno di spezie e di ori. Popolato da animali fantastici e spaventosi. Nel Mar
Tirreno gli appariva un veliero battuto dalla pioggia. Vedeva, con il potere della mente, la ciurma
dibattersi per non affondare. Comandanti, impettiti in bianche divise, soffiare, con forza, all’interno di portentosi fischietti argentei. Mozzi, con bende su un solo occhio, pronti a remi per salvare un tesoro. Tutto si proiettava di fronte a lui, in quel momento preciso. Immaginava che le placide acque del fiume diventassero un mare in tempesta, quel mare che lui poteva solo sognare. I filari di pioppi. Le file di betulle. I castani ‘matti’ di pianura. I salici piangenti. Si trasformavano in palme, in alberi da cocco, in piante di datteri, in ulivi rigogliosi. Ogni mare evocato dalla voce, sprigionava una nuova storia. Una nuova avventura.

Un carosello perpetuo che sfinì il ragazzo. L’imitazione metallica di un canto d’usignolo pose fine
al programma. Giuseppe abbassò il volume. Altre voci, intanto, raccontavano di tragedie nel
mondo. Di inutili politici. Di gioielli e pellicce. Di calciatori ricoperti di denaro. Nulla, di questo, gli interessava. Si distese, con gli occhi semichiusi, a ricordare quelle immagini meravigliose di uomini e natura. Solo verso mezzogiorno, quando il coro delle cicale gli rodeva i pensieri, si riavviò a casa. Il pranzo di famiglia era pronto. Rimase l’intero pomeriggio a letto. Sfogliò, con passione, il sussidiario scolastico dove il mare era dipinto sulla carta. Nel cuore della notte si svegliò, dolcemente. Promise a sé stesso che ogni giorno avrebbe ascoltato ‘Il Bollettino del Mare’. Da lì, in avanti, non perse una puntata. Solo alla domenica doveva saltare. Gli impegni religiosi gli
impedivano quei tuffi nelle sue onde immaginarie. Aveva la sensazione che poco prima dell’alba
voci e mani di quegli uomini di mare lo chiamassero per assistere alle loro avventure tra flutti e
marosi. O tra tranquille bonacce e notti stellate. Un richiamo irresistibile. Si svegliava: in tutta
fretta. Prendeva la radiolina e fuggiva nel suo luogo del cuore e d’avventure. Aveva stretto un patto con il sacrestano per cambiare e acquistare una nuova batteria. Ogni mattina, su quell’ansa di fiume, apparivano: battaglie furiose. Tempeste tropicali. Esplorazioni misteriose. Pesche miracolose. Imponenti balene, nel bel mezzo del Mediterraneo. Ogni volta: un’emozione. Ogni volta: un sussulto al cuore. Ogni volta: un volo di colorate farfalle nello stomaco.

Era una mattina, afosa, quando Giuseppe vide comparire sull’argine, vicino al suo rifugio, un uomo vetusto: preceduto da un cane.  ‘Il Bollettino’ stava finendo. Fischiò così un richiamo all’animale che gli si avvicinò guardingo. “Accarezzalo pure: è tranquillo, forse più di un bambino”, disse il padrone. Giuseppe toccò, con dolcezza quel meraviglioso setter dal pelo ambrato. “Si chiama Freddy”. “E tu piccolo chi sei? Che fai da queste parti tutto solo?”. “Sono Giuseppe. Frequento le scuole elementari. Abito, qui vicino, nella cascina in fondo. Quella dietro l’argine maestro”, rispose il ragazzo. “Vedo che hai una radio”, aggiunse l’anziano. “Sì. Ascolto, tutte le mattine a quest’ora, ‘Il Bollettino del Mare’. Anche se piove mi trovi qui. Io il mare, però, non l’ho mai visto. Il fiume è il mio mare”, sorrise. “Poi quando il signore della radio parla immagino. Il Po si riempie di onde. Di burrasche. Di venti forti. Con balene enormi che scappano. Pescatori cattivi che le inseguono. Uomini antichi che navigavano nel Mar di Sicilia, in quello Jonio. Sulle barche portano cammelli giganteschi. Tigri cattivissime. Elefanti grandissimi”. “Amo questo mio mare”, gridò Giuseppe con tutto il fiato che aveva in gola.  Come dovesse disfarsi di un terribile e atavico segreto. Poi si ricompose.

“E tu chi sei? Che mi fai tutte queste domande’. L’uomo lo guardò con affetto bonario. Gli passò una mano gentile sui capelli. “Mi chiamo Alberto sono stato un avvocato. Ora vivo, in un casolare dall’altra parte della golena. Da tanto tempo ho smesso di fare quel lavoro. Ero stufo di litigi. Dolore. Parole inutili. Del male di questi nostri tempi. Capisci?”. Giuseppe annuì. “In passato sono stato un appassionato cacciatore. Ma ora basta. Ho sepolto, per sempre, fucile e pallottole. Il rumore degli spari e il sangue del selvatico mi porta la nausea. Ho solo il mio Freddy. È il mio unico e ultimo compagno della mia vita felice e serena. Girovaghiamo sugli argini senza
una meta. Godiamo degli spazi infiniti della pianura. Dei grandi silenzi di queste terre”. Si fermò un attimo per guardare un gruppo di sottili nuvole in arrivo, poi riprese. “Ascoltiamo i tonfi dei pesci che saltano nei gorghi della corrente e i richiami dei cuculi invisibili. Seguo il mio setter come una ombra in boschi di pioppi. In foreste di robinie. In mezzo a ‘laghi’ di granoturco”.

“Ho capito “, lo interruppe il ragazzo. “Bene ora devo andare anch’io. Ci vedremo”. L’animale si avviò davanti, l’uomo dietro; scrutando un orizzonte perpetuamente piatto. Tornavano a casa quando il sole si faceva alto nel cielo; anche nei giorni più oscuri. Lui si accomodava in una poltrona di cuoio sgualcita. Leggeva libri di avventure esotiche di pirati, in attesa del pranzo. Il cane si sdraiava, pacifico, in un angolo del salotto. Si addormentava. Sognava di corse infinite su prati di montagna tra nigritelle all’essenza di cacao e margherite intrise di camomilla. Da quel momento, non passò giorno che Alberto non andasse a salutare Giuseppe. Il ragazzo si sbracciava per ricambiare, da lontano. Poi tornava a immergersi nei suoi ‘luoghi’ marini.

Era un giorno di piena estate. L’alba era nata prestissimo. L’avvocato era già in cammino da tempo. Vide Giuseppe che saliva, leggero, sull’argine. Nelle mani: l’inseparabile transistor che gracchiava le ultime musiche dei programmi notturni. “Giuseppe, Giuseppe”, lo chiamò. Il ragazzo si avvicinò con lo stesso sorriso radioso di chi star per partecipare a un banchetto nuziale. Lo ascoltò con occhi grandi, illuminati dai raggi cristallini di sole. “Giuseppe, dimmi un po’. Ti piacerebbe vedere il mare? Sentire il suo rumore. Ascoltare il vento. Respirare il profumo di salsedine. Toccare la sabbia bollente. Sarebbe meraviglioso. Non trovi? Soprattutto per te che lo ami così tanto”. Giuseppe rimase in silenzio. Attonito dalla proposta. Per lui il mare era quella voce che raccontava di luoghi mai visti. Di venti bizzarri. Di marinai che sfrecciavano con le loro barche. Non riusciva ad immaginare altro se non quei suoni abbinati all’ansa del fiume. Alla pacifica tranquillità delle lanche. Al canto degli uccelli di golena. Nulla d’altro. Nulla di diverso. Quell’invito, però, lo aveva stregato: intimorito. Fece ‘sì’ con il capo. Poi prese coraggio. “Devi chiedere ai miei genitori”, disse tutto d’un fiato, scappando verso il suo solito posto d’osservazione mattutina. La radio intanto cominciava il racconto di venti e mari in bonaccia e in tempesta.

Alberto restò fermo. Immobile. Si raccolse nei suoi pensieri. Il setter si era steso ai suoi piedi. Decise di andare subito a chiedere il permesso per quella ‘gita’ sulla spiaggia più vicina. Nessuna obiezione da parte dei genitori. Si fidavano di lui. In un lontano passato li aveva aiutati a scampare dalle furie di un pazzo fattore. In pochi istanti, furono decisi data e ora di partenza. Il figlio si sarebbe adeguato. Il viaggio fu fissato due giorni dopo. La notte prima della partenza, Giuseppe non chiuse occhio. Si rigirava inquieto nel letto. Lo molestava una paura inconscia. Un timore velato. Neppure un refluo di brezza fluviale, entrato improvvisamente, riusciva a dargli pace. Arrivò l’alba. Scese in fretta e si mise sulla porta ad attendere Alberto. Lo accompagnò il bacio della madre e la carezza del padre, già pronto a rompersi la schiena nei campi. L’avvocato arrivò puntale. Il ragazzo salì in macchina. Diede un ultimo sguardo a quella sua immensa campagna che si stava svegliando. Il motore della vecchia Giulietta borbottò, non poco, sullo sterrato che dalla cascina portava alla carrozzabile. Poi la sua voce si fece monotona e tranquilla. Decine di chilometri passarono sulla piatta pianura; tutti tremendamente e familiarmente uguali. Campi. Chiese. E ancora distese di frumento. Cascinali di mattoni: ricoveri di tante famiglie numerose come la sua. La macchina, quasi improvvisamente, infilò una lingua di asfalto in mezzo alle colline. Iniziò a salire. Le vette intorno si facevano sempre più alte. Curve e tornanti infastidirono il corpo di Giuseppe. Per non pensarci, ricordò un gioco insegnatogli dal nonno. Lo faceva sempre quando lo portava in città su di un carretto, trascinato da un vecchio mulo della cascina. Consisteva nel contare tutti i campanili sparsi sulle colline. Le sue palpebre si chiusero piano, dopo aver numerato una croce di ferro sul cucuzzolo di una torre, sgualcita dal tempo e dall’aria marina.

Riaprì gli occhi solo perché Alberto lo aveva toccato sul braccio. “Giuseppe, sveglia! Sveglia! Siamo arrivati al mare. Lo vedi? Eccolo!”. Il ragazzo si destò. Abbandonò un sogno di campi e rogge. Di anatre ciancianti con i loro piccoli. Di caprioli impauriti. Di fronte a lui una lunga strada. A sinistra un paio di alberghetti del secolo prima. Case di pescatori. Osterie con insegne bruciate dalla salsedine. Biciclette morse dalla ruggine: lasciate morire contro muri decrepiti. Sullo sfondo colline leggere; ricoperte di ulivi e pinete. A destra pietre e alberi marini. Un po’ più in là; un salto verso il basso: il mare. Tagliato da file di scogli, muraglie contro le burrasche. Donne vestite di bianco, sedute sulla spiaggia facevano da guardia a rumorosi bambini. Poi una linea di azzurro lucente: l’orizzonte infinito. Fusione perfetta: tra acqua e cielo.

“Ti piace?”, chiosò entusiasta Alberto. Giuseppe fece solo un segno di assenso con il capo. Rimase in silenzio. Abbandonò l’autovettura. Si diresse verso la scaletta, che portava alla spiaggia. Camminò, con calma, fino alla riva, accovacciandosi sul bagnasciuga. Attese un’onda più forte per farsi inondare piedi e mani. Giochicchiò con pietruzze e conchiglie. Bagnò il viso. Una smorfia di disgusto gli percorse il volto al contatto della salsedine con la bocca. Non ricordava che l’acqua del mare fosse salata. “Allora come ti sembra dal vero?”, tornò a chiedere Alberto che lo aveva raggiunto. “Bello, bello”. Giuseppe rispose con la stessa piattezza del mare che aveva davanti. A riva, signoreggiava il deserto, nonostante la stagione estiva. Solo un gozzo, malconcio, lottava contro le correnti; poco lontano dagli scogli. A bordo una coppia di mezz’età pronta a immergersi. Un grigio mercantile sfiorava l’orizzonte. Lasciava, dietro di sé, una scia leggera. Una nuvola di fumo impalpabile. Null’altro. Il sole che si schiantava implacabile su quella massa azzurra. Non trucide battaglie tra galeoni. Non uomini stranieri recanti tesori immaginifici. Non pirati accesi di sdegno e desiderio di nuove conquiste. Non marinai con bianche divise pronti a soccorrere naufraghi immersi nell’urlo dei flutti. Non terribili e devastanti tempeste contro cui gli uomini lottavano fino all’ultimo flato d’energia. Giuseppe e Alberto percorsero tutta la spiaggia senza dirsi una parola. Era già l’ora del pranzo. Ma Giuseppe volle solo dell’acqua. Alberto, in una vecchia osteria del porto, trangugiò un piatto di alici appena pescate. Quand’ancora l’anziano avvocato aveva nelle mani un calice di vino frizzante, Giuseppe lo supplicò. “Possiamo tornare subito a casa? Ti prego. Non voglio restare più qui”. La Giulietta riprese la strada per la piana. Il silenzio tra i due regnò fino a che l’autovettura non si fermò esattamente nel punto in cui era partita; nella grande corte. “Grazie”, sussurrò il ragazzo, infilandosi in casa.

Passarono giorni, prima che i due si incontrassero di nuovo. Accade all’alba, come in passato. “Ciao Giuseppe, stai bene?”, gridò Alberto. Lui raggiante ricambiò il saluto tornando sull’argine maestro. “Sono felice Alberto. Immensamente contento. Sono tornato al mio mare. Lo vedi? È questo. Il mio Po. È quello vero. Non ne esistono altri. Lui. Lui solo”. Corse verso la riva. Entrò nel fiume e abbracciò l’acqua. Stringendo solo se stesso. L’anziano capì. Chiamò il cane. Si avviarono verso casa. Scomparvero nel bagliore di un giorno di vento e di sole.

 

Roberto Fiorentini

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