“Devi organizzare il team, creare il gruppo per la nostra missione e lo dovrai guidare”. L’incarico era stato perentorio. Per Mirco una doccia fredda. Non era più giovanissimo, forse non aveva neppure le competenze. Era basso di statura, fatto per lui penalizzante, con l’età si era fatto rotondetto e la sua faccia gioviale e tranquilla era una circonferenza paffuta. “Dovrai motivare e far lavorare insieme degli ex carcerati. La nostra cooperativa conta su di te”. Lui era in panne. Non sapeva da che parte cominciare. Aveva bisogno di una ispirazione forte e la sua mente l’ha trovata in un film. Un film culto: “Quella sporca dozzina”, diretto da Robert Aldrich, adattamento dell’omonimo romanzo di E.M. Nathason, con un cast stellare.
Riguarda il film. Lo aveva visto mille volte. Aveva ancora la videocassetta e il lettore vhs. La trama è nota: nell’imminenza dello sbarco in Normandia, il comando supremo dell’esercito americano affida al maggiore John Reisman l’incarico di far saltare in aria un castello, nel quale alti ufficiali tedeschi sono soliti riunirsi in gran numero. Dovrà eseguire l’incarico, guidando dodici detenuti condannati a morte o a lunghe pene detentive. Reisman è riluttante per quella che ritiene una missione suicida, ma è obbligato a obbedire. La motivazione per i detenuti è che, se riusciranno a cavarsela, potranno essere graziati. Il film è diviso in due parti: la prima parte sviluppa il tema del reclutamento, la seconda l’azione. Vengono convocati i 12 ergastolani e condannati a morte: sono messi in ordine di altezza. Hanno un numero non nomi. Scelta aggregativa, quantitativa non qualitativa. C’è poi un addestramento per verificare il livello di capacità. Emergono sentimenti di rabbia, scherno, negatività: tutto viene sedato con la forza. In pubblico non c’è persuasione, non c’è negoziato, c’è solo l’autorità.
In privato, invece, il capitano fa leva sulle diverse motivazioni, incontrandoli uno alla volta, cerca di muoverli all’azione. Ha un fascicolo su tutti, mettendo in scena un magnifico processo di cooptazione.
“Ho saputo che sei il più quotato fra i gangster di New York, vero?” Dice a uno di loro.
Ad un altro fa sapere “C’erano dei testimoni”. Per cui lui sa la verità. Lui sa come sono andate le cose.
Il fondamentalista religioso, maniaco sessuale ride e confessa: “Ho violentato quella donna perché cercava di traviarmi. La vendetta è mia: un uomo è destinato a cose più elevate”. Il comandante fa leva sulla sua fede, è molto religioso.
Un altro convintamente dirà: “Meglio morire da soldato. Sempre morire è”.
Ancora. “Combatti per te stesso, fallo per te”. Tema del tempo: il tempo sta per scadere, scegli perché il tempo sta per finire, il tempo è un boia.
Il musicista vuole la corda della chitarra, facendo una richiesta modesta, si è posto un limite.
Dopo il colloquio privato con ognuno detta le regole generali per tutti. Non deve stupire. In un rapporto di comunicazione conta il ricevente, non l’emittente. Il comandante sta nel ruolo, si occupa solo di cose importanti, costruisce la sua comunicazione sul ricevente, non su se stesso, non si mette mai al livello della sporca dozzina, resta separato, lui è il capo. Sposta le questioni dei litigi a fatti secondari, affidandole ai subalterni.
E’ un gruppo molto sgangherato e disomogeneo, spicca Franco, un soggetto molto controdirettivo, occupa il ruolo del controleader. All’inizio è un demotivatore, poi una volta metabolizzata la sua missione, sarà di grande aiuto al gruppo. Quando chiede l’acqua calda per lavarsi è già diventato un riferimento del gruppo.
L’unico soggetto veramente negativo e pericoloso è il maniaco sessuale e fondamentalista religioso. Lo estrometteranno e si estrometterà perché inutile. Il film insegna che solo i pazzi non riescono a entrare in un team. Per tutti gli altri c’è la possibilità di amalgamarsi.
Il capitano sa provocare per far reagire, facendo leva sui sentimenti e l’emotività. Il capitano fa festa, per ridere e creare coesione e spirito di gruppo, per celebrare insieme le vittorie.
Poi fanno delle esercitazioni, per far crescere identità e spirito di squadra. Fanno una festa, invitano delle donne. Il capo convoca tutti tranne il maniaco sessuale, lo mette di guardia su una torretta. Evita di esporlo ad un conflitto.
Il capo cerca di valorizzare le persone, con empatia. Soprattutto se un gruppo è fragile. Se cade uno, cadono tutti!
Mirco si sentiva più forte, più sicuro. Poteva fare suoi molti spunti forniti dal film. Del resto il suo progetto era una passeggiata rispetto alla missione raccontata. Il suo capo aveva preso un appalto importante per curare i giardini, i parchi e gli orti di tre tenute per tre anni. Mirco, con la sua laurea in architettura, aveva bisogno di ispirazioni alte. Chi era il più grande esempio di project manager nella storia? Rimase lì a pensare. E’ Cristoforo Colombo. Ha una ciurma di persone demotivate che si lamentano in continuazione. 90 giorni di fila con una distesa di acqua davanti e lui vince ogni scetticismo per arrivare al suo obiettivo.
Si era fatto l’idea che con il gruppo si costruisce il lavoro, non con le parole, ma con le azioni, costruendo relazioni. Prepara un dossier su ciascuno di loro e li incontra uno alla volta. I suoi “ragazzi” erano già formati. Avevano seguito un corso e si erano impratichiti nel parco e nell’orto in carcere. Di un paio dei suoi detenuti era amico. Si era chiesto quanto contasse il fattore amicizia in un rapporto di lavoro. All’inizio l’amicizia è un elemento facilitatore poi conta essere oggettivi.
Anche avere delle preferenze non è un fatto negativo, anzi è naturale, perché non siamo tutti uguali. Non trattiamo mai i nostri figli tutti nello stesso modo.
I suoi detenuti avrebbero percepito una paga. Il denaro. Già. Mirco si era fatto l’idea che avesse un valore motivante decrescente. All’inizio muove all’azione poi diventa un fattore di cui si comprende il valore solo se viene sottratto. Doveva lavorare su qualcosa in più, oltre ai soldi. Doveva costruire un sistema di valori, olistico, un benessere, una felicità che andasse oltre il salario pattuito.
Il valore della sua proposta doveva scavalcare e andare oltre l’aspetto economico.
Il suo impianto teorico e preliminare sembrava pronto, doveva solo passare all’azione, quando il presidente della cooperativa gli affianca una giovane ragazza fresca di magistrale in architettura dei giardini: doveva fare un tirocinio. Era bella come l’acqua. Era piccolina, come lui, aveva due occhi azzurri immensi, i capelli biondi, vestiva male, malissimo, ma era competente e simpatica. Tutto in lei era leggerezza e sorriso. Si muoveva con grazia, voleva vedere i dossier, le planimetrie dei parchi, voleva fare sopralluoghi, era un vulcano di idee. La magnolia va potata. Lì propongo delle ortensie. Là un prato inglese. Mirco, sebbene la razionalità gli suggerisse che quello fosse un valido aiuto, sprofondò nel panico. Era sedotto da ogni suo gesto. Si sentiva debole e insicuro. Il suo castello di carte crollò miseramente. C’era forse un pizzico di invidia. Sicuramente era già innamorato.
Innamorato. Pazzo.
Francesca Codazzi
3 risposte
Leggere i tuoi racconti é sempre piacevole!
Anche “Il castello di carta”è accattivante e cattura l’attenzione. Sei sempre creativa nella esposizione, hai argomentato la trama del film con precisione, come se fosse la proiezione.
Il finale è “un colpo di scena” che lascia stupiti. Hai sempre la mia ammirazione.
Complimenti, buon proseguimento nella scrittura.
Grazie Maria Teresa per la tua analisi
Un argomento ben centrato, come sempre, il rapporto tra persone che guidano (leader) e chi deve eseguire avendo fiducia nel suo leader. Un filo molto sottile che in nome di un rapporto più stretto (immaginabile visto che siamo cellule con sentimenti) l’amicizia rischia sempre di sprofondare il progetto.
Brava Francesca hai dato il via ad una nuova vena narrativa. Sviluppa il tutto e avremo l’immenso piacere ed interesse di seguire questo tuo nuovo racconto a puntate.
Un abbraccio