Si ricordano quest’anno i 700 anni dalla morte di Dante (Firenze 1265 – Ravenna 1321), il sommo poeta, padre della lingua italiana e se ne è parlato giustamente in ogni ambito, anche in quello del cibo. Il presidente onorario della Accademia italiana della cucina, professor Giovanni Ballarini, ha scritto al proposito un interessante articolo per la rivista dei Georgofili in cui ha evidenziato i numerosi riferimenti al cibo nel Convivio e nella Divina Commedia. Questo mi ha spinto a consultare i ricettari del Trecento, che sono giunti fino a noi, per accostarli alle abitudini alimentari dei cremonesi del tempo desunte da antiche fonti. In ambito locale non abbiamo notizie sulla cucina medioevale anche se la ricchezza e la varietà dei prodotti commerciati lasciano presumere che a Cremona non si mangiasse male: boschi, fiumi, campagne fertili e ben coltivate, allevamenti di bestiame fornivano ingredienti per pasti appetitosi. I ricchi avevano come piatto base la cacciagione (lasciata frollare con spezie ed erbe aromatiche) considerata un simbolo del loro stato sociale; ad essa si accompagnavano arrosti di bue e di maiale, capretti, pollame oltre ai pesci quali storioni, lamprede, trote, anguille …. presenti nel Po e nei numerosi corsi d’acqua presenti nel territorio. Si faceva largo uso di salse a base di spezie, che insaporivano cibi e bevande e favorivano la digestione, si cominciarono ad usare anche aglio, rosmarino, maggiorana, dragoncello, erbe aromatiche e piante casalinghe coltivate negli orti di case, di abbazie e conventi. Ai pranzi di nobili e mercanti si servivano numerose portate, ognuna delle quali consisteva in un certo numero di piatti diversi, posti sulla tavola tutti insieme in modo che i commensali potessero scegliere tra quanto veniva loro offerto. Ben diversamente mangiava la povera gente che se mai aveva il problema di trovare ogni giorno il cibo con cui sfamarsi. Si nutriva di pane nero, faceva largo uso di zuppe di segale, orzo, avena, miglio, di legumi, di ortaggi. Raramente mangiava la carne, alimenti proteici le venivano dalla caccia e dalla pesca esercitate di frodo, dalla raccolta di piccola fauna come rane, lumache, scoiattoli, ghiri, ricci, tassi. Fondamentale era la conservazione del pesce che, una volta fritto in grassi animali, veniva trattato con aceto e aglio.
Nella prima metà del XIII secolo Cremona fu testimone del fasto in cui viveva la corte di Federico II (1218-1250) che soggiornò a più riprese in città dove, a partire dal 1237, egli aveva posto la sua residenza e il quartier generale dell’esercito imperiale nelle lotte contro i Comuni lombardi. Ma non è stata ancora trovata alcuna documentazione sulla cucina di corte.
Interessanti riferimenti ai cibi e agli usi della tavola emergono dai testi in lingua volgare di tre poeti cremonesi del XIII secolo. Uguccione, della nobile famiglia dei Da Lodi di probabile origine cremonese, ricorda la bontà delle peverade calde, delle lombate e delle focaccine arrostite, delle bevande appropriate, del vino forte ed esalta infine i sapori di fagiani, pernici e galline cotte a puntino. Questa precisazione, che un requisito per la bontà delle carni fosse la giusta cottura, emerge da altri versi di un autore coevo: scrive Giacomino da Verona che Belzebù manda a Lucifero, il re dell’inferno, insieme ad una salsa sopraffina, un dannato che ha arrostito allo spiedo come un bel porco. Ma Lucifero indignato glielo rimanda esclamando che l’ha cotto poco, ‘…che non vale un fico secco perché la carne è cruda e il sangue è fresco’. Gli altri due autori cremonesi sono il notaio Gerardo Patecchio e Ugo da Persico, ambasciatore del Comune alla corte di Federico II a Ratisbona. Ne Le noie (un elenco delle cose spiacevoli riguardanti il viver cortese e il buon comportamento) che essi scrissero l’uno in risposta all’altro, si soffermano anche sui cibi e sulla mensa.
A Gerardo non piace mangiare scomodo e stretto a tavola, lo disturbano molto l’arroganza degli osti e la sporcizia delle taverniere; non gli vanno proprio le peverade fredde (ed è in questo d’accordo con Uguccione che appunto esaltava la bontà di quelle calde), la carne grassa, i pesci magri, il vino reso cattivo da una botte inadatta. Gli risponde Ugo da Persico con un lungo elenco di altre ‘noie’, di altre cose cioè che non piacciono a lui come un piccolo pasto servito ad una numerosa compagnia di commensali, del vino buono versato in un bicchiere brutto, del cibo saporito presentato sopra una tovaglia sporca. E lo irritano molto il cuoco che toglie le interiora del cappone o quel servo che fa aspettare troppo nel servire in tavola. Il riferimento ai cibi è sommario: la carne per essere buona non deve essere grassa, al contrario il pesce è buono proprio quando è grasso e la peverada deve essere servita ben calda. E’ questa una salsa il cui nome deriva dal pepe impiegato come elemento caratterizzante, ancora in uso oggi per accompagnare i lessi. La ricetta più vicina al tempo dei nostri poeti risulta essere quella riportata nell’anonimo Libro della Cocina, un ricettario toscano del XIV sec., dove il pepe non compare, ma forse è compreso nel termine generico di spezie (pane abbrusticato, zafferano, spezie e fegati tritati finemente nel mortaio e poi aceto o vino o brodo. E’ salsa adatta sia al pesce che alle carni e alla selvaggina.
Altre ricette di salse dello stesso periodo, nel Liber de Coquina, un testo in latino di un anonimo della corte angioina, si leggono due ricette: per fare la salsa verde (con prezzemolo, menta, sommaco, cardamomo, noce moscata, pepe, chiodi di garofano, zenzero, mollica di pane, aglio tutto ben tritato e stemperato con buon aceto) e per preparare il mosto per fare la mostarda, che non è quella di frutta di Cremona, ma è succo di uva fatto bollire e ridotto di un quarto in cui tritare seme di senape. Messo in barile si conserva per 4 mesi e va usato per carni di porco, tinche marinate e altre vivande.
Gli accenni alla vita signorile della ricca borghesia mercantile che esige un inappuntabile servizio di mensa, non tollera la sporcizia, l’arroganza, la pigrizia e pretende pulizia e cortesia anche fuori casa, in osterie e locande, rimandano alle regole di comportamento e ai precetti di etichetta a tavola contenuti ne Le cinquanta cortesie di tavola che negli stessi anni e nella vicinissima Milano, Bonvesin de la Riva scriveva per i giovani che frequentavano la sua scuola. Le quartine più interessanti riguardano il modo di stare a tavola proprio dell’epoca: i commensali non dispongono di coperti individuali, ma devono dividere con uno sconosciuto scodella, bicchier, tagliere ‘…non mettere la mano sul tagliere della carne, tra le uova o in altre pietanze rivoltandole per cercarvi un bocconcino, dà fastidio a chi mangia con te, non mettere pane nel vino dentro al bicchiere che dividi con un altro’. Per i cibi liquidi e le salse sono invece a disposizione cucchiai individuali. Gli uomini portano in un fodero il coltello con cui tagliano le carni e i cibi solidi anche alle donne sedute loro accanto, meno abili di loro nell’arte del taglio. Si sottolinea che è importante la tolleranza: ‘Non riempire troppo fondine e scodelle, ci sia misura e modo in tutte le cose; chi eccede non fa cortesia. Non eccedere anche se il vino è buono perché nuoceresti al corpo, all’animo e al vino consumato’ e che allegria, cortesia, gentilezza e rispetto nei confronti degli altri commensali sono atteggiamenti da mantenere sempre a tavola per la buona riuscita di un incontro conviviale.
Cremona, entrata nell’orbita viscontea (*) nella prima metà del XIV secolo, non conobbe il fasto di corte delle vicine Mantova e Ferrara e quindi non ebbe cuochi, sescalchi, trincianti, maestri di casa famosi che lasciassero testi fondamentali per la cucina o cronisti che ne tramandassero l’abilità. Ma questa è un’altra storia…
(*)I Visconti a Cremona: dal 1322 al 1327 entra Galeazzo, ma solo nel 1334 Cr è città viscontea e lo sarà fino al 1403.
Carla Bertinelli Spotti