Francesca Archibugi è una regista che ha da sempre amato gli intrecci e i drammi famigliari; e appunto Romanzo famigliare si intitola un serial da lei diretto e trasmesso dalla Rai. Proprio il protagonismo di questa istituzione così centrale deve averla attratta verso il romanzo di Sandro Veronesi, Il colibrì, che racconta di un nucleo famigliare dell’alta borghesia italiana, scandendo la sua storia in una discontinuità temporale (le vicende dei nonni e dei nipoti si intrecciano in diverse epoche) che il film ha rispettato, e forse reso ancor più frenetica (nel che sta una delle ragioni della fruizione, non sempre facile, dell’opera, ma Archibugi non ha mai avuto paura di certe asprezze nel suo modo di filmare).
La famiglia Carrera si trova coinvolta in una lunga sequela di liti furibonde fra coniugi, di tragedie non sapute prevenire, di rivalità e incomprensioni tra fratelli, alimentate dal senso di colpa per il suicidio di una sorella (la bravissima Fotinì Peluso, non nuova nelle pellicole della regista). E tuttavia, in questo crogiuolo di passioni e sofferenze, la famiglia rimane unita: l’affetto si trasmette dai nonni ai nipoti, la difficile convivenza fra i due coniugi più anziani si chiude con la constatazione che, in fondo, non è possibile stare lontani, e l’uno assiste l’altro nella debolezza e nella malattia. Del resto, attorno al protagonista Marco Carrera (il solito, bravissimo, ma ormai anche un tantino ingombrante Favino), che ha scelto il suicidio assistito a causa di una straziante malattia terminale, si pongono tutti i componenti della famiglia, e gli amici in una sequenza commuovente, che lascia però affiorare in modo netto la sua tonalità tragica e urtante.
Se la famiglia costituisce lo sfondo (che però spesso si aggiudica il primo piano) de Il colibrì, al centro del film si pone una riflessione sull’essere maschio, che non è isolata nel cinema della Archibugi (e si pensi al personaggio che più assomiglia a Marco Carrera, il Giorgio Selva de Gli sdraiati, uomo insicuro e tormentato, incapace di intrattenere rapporti sereni con le donne della sua vita e con sui figlio). Pur se diverso, e meno condannabile, della mascolinità tossica del marito violento in famiglia e dello stupratore, anche il modello rappresentato da Marco appare agli occhi della regista profondamente carente, e in debito continuo con le persone che lo circondano, anche, e soprattutto, quando crede di offrire loro amore e rispetto. Marco, come appunto il colibrì del titolo, compie sforzi frenetici per rimanere sempre allo stesso posto: è bloccato, non si preoccupa di sapere chi sono veramente le persone con cui è in contatto, non percepisce il disagio e l’infelicità degli altri, che egli provoca senza rendersene conto. L’accusa della moglie infelice e delusa, che pure si è resa colpevole di tanti tradimenti, si pone come una verità pesante: “Io ti ho tradito, ma tu hai una colpa infinitamente peggiore, mi hai creduto”: per quieto vivere, per disattenzione, per un pigro e vile desiderio di non patire sofferenza ed affrontare conflitti, per non doversi scontrare con il mutamento della realtà che lo circonda. La decisione che sta all’origine del suo stesso male di vivere (quella di non farsi avanti, di rinunciare alla donna che ha sempre amato a causa del sentimento di colpa nei confronti della sorella suicida) si rivela alla fine un ulteriore mascheramento di una rinuncia alla vita e alla felicità per mancanza di coraggio, per un rassicurante bisogno di staticità che costituisce la sua condanna.
Il colibrì è un film tristissimo, letteralmente attraversato da un’infelicità tanto più dolente quanto più inconsapevole. Ma Archibugi ama i suoi personaggi; e li accompagna con una sorta di severa commozione, permettendo loro una finale consapevolezza e il riscatto. Così, nello scioglimento, riconosce a questo contemporaneo “uomo senza qualità” la possibilità di scelte definitive, soprattutto quella di accettare serenamente un suicidio assistito che lo preserva dal penoso decadimento della malattia; e nonostante il macabro cerimoniale che accompagna la sua morte, emergono la forza della sua scelta e la possibilità di essere circondato dalle persone che lo hanno accompagnato, finalmente pacificate tra loro e con lui.
In questa sua ultima opera, che viene subito dopo la caduta del mediocre Vivere, Francesca Archibugi mostra di aver maturato, fino al limite del virtuosismo, la sua capacità tecnica di raccontare una trama complessa, senza curarsi della coerenza temporale, per momenti slegati cronologicamente e spezzati in sequenze a volte minime; e dirigendo un cast di attori di alto livello, necessario per un film che vive grazie all’intreccio delle vite e delle passioni di tanti personaggi. Ma la sua vena più autentica, quella sommessa e attenta ai sentimenti e alle emozioni più intime, raggiunge il culmine quando sono in scena i bambini, che sa far recitare con una naturalezza e un’intensità che solo il grande Comencini ha saputo realizzare nel cinema italiano.
Vittorio Dornetti