Il demone del gioco

20 Luglio 2025

Provava soddisfazione a inserire, conversando con gli amici al bar, il detto toscano: “Da Montelupo vedi Capraia:  Dio fa i coglioni e poi li appaia”. E aggiungeva, come spiegazione, che da Montelupo si vede l’isola di Capraia. Era arrivato a Torino nel 1966. Il conte Alberto, un tipo distinto, elegante, intorno ai quaranta, rampollo di una nobile casata fiorentina, Nel suo albero genealogico figuravano personaggi illustri, come Pia de’ Tolomei, la donna citata da Dante nella Divina Commedia nel celebre endecasillabo:  “Ricordati di me che son la Pia”. 

L’aveva spedito in Piemonte la contessa sua madre, proprietaria di una casa farmaceutica, con la speranza che finalmente incominciasse a lavorare e che si affievolisse in lui la febbre del gioco d’azzardo. A Torino aveva occupato un appartamento al piano terreno di uno stabile di proprietà della sua famiglia, situato nei pressi del Valentino e a quell’indirizzo venivano spediti per posta o tramite corriere scatoloni contenenti i prodotti farmaceutici da illustrare ai medici perché li prescrivessero ai pazienti.

 La sua sede preferita, dove ogni giorno trascorreva parecchie ore, non era l’ospedale o lo studio medico, ma il bar all’angolo, dove aveva conosciuto persone che passavano gran parte della giornata giocando a carte, a biliardo o a boccette, perdendo o vincendo. Gli abituali frequentatori erano: un cinquantenne, eccellente nel gioco del ramino, che aveva ottenuto la pensione ancora in giovane età non si sa con quale espediente; un finto invalido di 36 anni bravo a biliardo; un artigiano della zona. soprannominato Rembrandt. perché gestiva un negozio di vernici e colori; un tipo che da quattro anni diceva di stare per laurearsi in architettura e altri avventori di varia estrazione sociale, tra cui alcuni studenti, per lo più persiani, iscritti al rinomato Politecnico di Torino. 

Si coglieva la sua distinzione sia dall’abbigliamento contrassegnato da giacche doppiopetto sia perché viaggiava con una costosa Fiat 1600 S coupé bianca con gli interni in pelle nera. Nell’eloquio si distingueva per proprietà di linguaggio e facilità espositiva. Dissimulata da tornei di biliardo o innocue partite a carte, la sua indole di grande giocatore d’azzardo non tardò a venire allo scoperto. Un giorno propose all’architetto mancato e a uno studente di medicina ampiamente fuori corso di fare una gitarella a Saint Vincent, a bordo della sua macchina, col pretesto di sfuggire alla calura delle serate torinesi del mese di giugno. In realtà la sua meta era il Casinò. La proposta venne accettata con entusiamo. La sera successiva, la partenza, alle ore 21 in punto, venne fragorosamente salutata dalla compagnia del bar che era stata messa al corrente. 

Un’ora dopo, il terzetto giunse nel parcheggio della casa da gioco. Prima di scendere dall’auto, Alberto estrasse il libretto di circolazione e v’infilò diecimila lire dicendo che, in caso di disfatta, la benzina per il ritorno sarebbe stata assicurata. E proprio quei soldi servirono per arrivare a Torino: persero, chi alla roulette chi a “chemin de fer” o a “trente et quarante”, tutti i soldi che avevano con sé. Alberto lasciò sul tappeto verde una somma ingente, ma poi si capì che non era la vittoria ma la sconfitta che andava inseguendo per avere quella scossa emotiva che cerca chi è posseduto dal demone del gioco. A causa delle frequenti puntate a Saint Vincent, l’attesa dello stipendio, che gli veniva spedito dalla madre con vaglia telegrafico, diventava vitale. Alberto lo si poteva vedere sulla porta di casa, il 27 del mese, scrutare inquieto l’orizzonte fino a quando non scorgeva il postino che, avendolo conosciuto, a distanza gli sventolava il vaglia telegrafico.

Un giorno, uno dei compagni di puntate, non vedendolo arrivare all’appuntamento quotidiano al bar, si recò a casa sua preoccupato. Raccontò che dovette fermarsi sulla soglia di casa a causa del fatto che l’ingresso e la sala erano stipati fino al soffitto di scatoloni di cartone, tutti ancora sigillati, che contenevano i farmaci da illustrare e distribuire ai medici. L’indomani Alberto entrò nel bar prima del solito offrendo da bere a tutti. Spiegò di aver ricevuto la telefonata di un notaio della sua città: era l’erede dello zio da poco scomparso. Si affrettò a vendere alla sorella i 12 appartamenti dell’eredità.

In quella breve estate riuscì a versare tutto il ricavato nelle casse del Casinò de la Vallée.

 

Sperangelo Bandera

Una risposta

  1. Il racconto è diverso dai soliti di Bandera i cui protagonisti sono le auto e le curve femminili capaci di rendere i loro compagni dei cretini. È molto carino e piacevole.

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